«L’ordine giudiziario dovrebbe interrogarsi di più sulla propria funzione e sui modi in cui viene svolta». Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, ex ministro del governo Ciampi e già professore di diritto amministrativo in numerosi atenei italiani, analizza la situazione della giustizia in Italia, a partire dal rapporto tra politica e magistratura.

Professore, viviamo in un tempo di conflitto tra politica e giustizia?

Più che un conflitto continuo, mi pare che vi sia un ripetersi di tensioni. Ma occorre distinguere. Le tensioni sono provocate nella maggior parte dei casi dalle procure, quindi non dalla giustizia, ma dall’accusa. E sono aumentate dalla lentezza con la quale la giustizia segue. È purtroppo normale che le procure registrino tra gli indagati persone che, dopo 710 anni, riescono a veder riconosciuto che non hanno commesso il fatto. Il secondo motivo di tensione è costituito da decisioni giudiziarie che si espandono in opposizione ad amministrazioni pubbliche, negandone l’expertise. Il terzo è più generale e riguarda la tensione tra giustizia e società, a causa della lentezza della giusti- zia. Dunque, distinguiamo bene i diversi motivi, fattori ed elementi di tensione.

Come spiega questo cortocircuito tra poteri dello Stato?

In molti Paesi moderni c’è una espansione del sistema giudiziario. In Italia la peculiarità è data dalla circostanza che magistrati e accusa e giustizia fanno parte dello stesso ordine. Su questa base si è inserita una corsa dei magistrati – specialmente dei procuratori – verso la politica. Quindi, un loro desiderio di “farsi vedere”, agire come “giustizieri”. Tutto questo, avvalorato da una narrazione del Paese come una nazione corrotta, mafiosa, dominata dall’illegalità. Quindi, le responsabilità non sono solo del corpo giudiziario, ma anche di tutti noi. Bisogna distinguere bene. Innanzitutto il corpo giudiziario è nel suo insieme di prim’ordine, anche se al suo interno tutti si sentono prime donne, nessuno tollera rapporti cooperativi e l’individualismo predomina. Poi, vi sono gravi responsabilità dell’opinione pubblica e di chi la forma, principalmente dei giornali. Le faccio qualche esempio: perché non si cerca di sfatare questa idea che l’Italia è un Paese fondamentalmente corrotto? Perché non si cerca di analizzare bene quali sono i limiti geografici e di influenza della mafia? É ancora vera la storia del familismo amorale?

Esiste, in questo conflitto, un rischio di crisi per il nostro sistema democratico?

Non penso che ci siano motivi di preoccuparsi per una crisi sistemica. Penso che dobbiamo preoccuparci dei tempi, piuttosto che dei conflitti. I conflitti possono anche essere benefici, ma non possono protrarsi a lungo. Insomma, le tensioni troverebbero un alveo fisiologico se le indagini delle procure si chiudessero sollecitamente e la gente potesse contare, come in molti Paesi, sul fatto che un processo, in tutti i suoi gradi, si chiude in un anno.

Come si può abbassare la tensione?

Innanzitutto con tempi brevi. Poi, mettendo una separazione netta tra ordine giudiziario e corpo politico. L’ordine giudiziario ha finito per confondersi con la politica, e questo non è un bene.

L’ordinamento giudiziario, al pari del sistema politico, sta vivendo un periodo di crisi. Da anni ormai si parla di necessità di riforma: lei condivide e, soprattutto, ritiene che la politica abbia la forza per metterla in atto?

Penso che l’ordine giudiziario dovrebbe interrogarsi di più sulla propria funzione e sui modi in cui viene svolta. Poi, dovrebbe aprirsi all’esterno, ascoltare ed essere meno endogamico. L’esempio della Scuola della magistratura è interessante: persino lì ci sono le cordate dei magistrati, le scelte accurate dei docenti “vicini”, mentre quella potrebbe diventare la palestra per avviare un dialogo tra interno ed esterno dell’ordine giudiziario.

Quali individua come priorità di riforma per il nostro ordinamento?

Farei tacere le leggi, per qualche tempo e spingerei il Csm e il Ministero della giustizia a garantire tempi brevi per la giustizia. Un grande sforzo in tal senso ridarebbe all’ordine giudiziario quel prestigio che ha perduto, considerato anche che la magistratura è andata progressivamen-te scendendo nei sondaggi di opinione pubblica.

Lei ritiene che sia necessario un cambiamento all’interno della magistratura? Si dibatte ancora oggi dell’annoso tema della separazione delle carriere.

La separazione ha assunto un valore simbolico. Invece, come tale, rappresenterebbe nella sostanza solo un limite di carriera per gli appartenenti al corpo, perché non consente di passare dall’una all’altra funzione, guadagnando sedi più comode o vicine a casa. L’argomento contrario principale è quello della sottoposizione dell’accusa a direttive esterne, quindi non riguarda la separazione in sé, quanto quel che potrebbe seguire.

Da giudice costituzionale, tra il 2005 e il 2014, è stato chiamato a pronunciarsi su temi che hanno infuocato l’opinione pubblica, a partire dalla costituzionalità del Porcellum. La appassiona il dibattito odierno in materia di legge elettorale?

Non mi appassiona e mi preoccupa la durata delle soluzioni. Se non ci mettiamo d’accordo su una formula elettorale, finiremo per fare una legge prima di ogni elezione, cambiando le regole del gioco ogni volta che inizia il gioco. Per esempio, nessuno di quelli che ho interrogato è disposto ad affermare che la legge Rosato è stata fatta per durare.

Lei è stato ministro per la Funzione Pubblica del governo Ciampi, come ricorda quel periodo storico così drammatico?

La meraviglierò: ero così concentrato sul mio compito – assicurare qualche piccolo passo sulla strada di una amministrazione più funzionante – che le circostanze di quei giorni le ho vissute quasi da lontano, consigliando Ciampi quando necessario e facendo il mio dovere.