L’estate del 1794, a Parigi la rivoluzione dell’ 89 consuma se stessa. Lo stato maggiore giacobino è alle corde: processi di massa e esecuzioni scandiscono il regolamento di conti contro Robespierre. In questo clima pochi uomini restano fedeli al principe del terrore e tra essi uno solo giganteggia alla pari con lui. È un giovane di 27 anni, bello e maledetto: il suo nome è Saint Just, l’arcangelo della morte. Una figura la cui vita fa tornare alla mente quello che il vecchio De Maistre nelle sue Considerations sur la France scrisse sulla rivoluzione: che in Francia affiorò un elemento non umano nei fatti nelle vicende e negli uomini che furono protagonisti di quegli anni convulsi. Saint Just, carattere incostante ma tratti geniali, a 22 anni, all’alba della rivoluzione, era già tra i tribuni più decisi e estremisti. Il suo eloquio fatto di frasi brevi e taglienti, di una retorica asciutta e ficcante gli fecero subito guadagnare un posto di primo piano tra le fila della rivoluzione. Nel 1789 pubblica un poema libertino in 20 canti e 2 volumi, il contenuto è così spinto che si disse, avrebbe potuto scandalizzare persino il marchese De Sade. Ma Saint Just non è solo uomo di impulsi e di azione. Ha alle spalle, malgrado la giovane età e gli studi interrotti, una preparazione teorica di tutto rispetto, tanto che a 24 anni pubblica uno scritto teorico politico in cui si avverte la forte influenza di Montesquieu: si chiama Lo spirito della rivoluzione e della costituzione di Francia dove pronuncia parole polemiche nei confronti di Rousseau: “Per quanta venerazione m’imponga l’autorità di J. J. Rousseau, non ti perdono, o grand’uomo, di aver giustificato il diritto di morte; se il popolo non può trasmet-È tere il diritto di sovranità, come potrà trasmettere i diritti sulla sua vita? ”.

Saint Just sembra anche contrario agli eccessi di spontaneismo rivoluzionario. Sulla presa della Bastiglia è critico: per lui, il popolo, dopo i primi eccessi “ebbe un momento di moralità, sconfessò i delitti di cui aveva macchiato le proprie mani e fu alquanto felicemente ispirato, sia dal timore che dall’influsso dei buoni spiriti, a darsi dei capi e a obbedire”. Di Montesquieu Saint Just acquisisce il metodo, sembra assorbirne anche lo spirito liberale. Ma è un’acquisizione di superficie, in breve tempo, via via che si affaccia la sua vera natura, piega i temi montesquieiani verso orizzonti che superano il moderatismo dell’autore dello Spirito delle leggi inserendoli dentro il contesto rivoluzionario. Per intendersi: Saint Just, come Montesquieu loda il ruolo positivo dei parlaments e dei corpi intermedi nella struttura dell’antico regime, ma poi introduce un punto di rottura nel discorso: siccome la nobiltà, dice, si è dimostrata incapace di essere all’altezza di quel ruolo sociale che ne aveva legittimato l’esistenza essa merita di essere spazzata via dalla rivoluzione.

Sain Just viene eletto deputato nel 1792: sostiene la necessità di mettere a morte Luigi XVI affer-mando che “Non si può regnare innocentemente; ciascun re è un ribelle e un usurpatore”. È il principio fondatore della filosofia totalitaria. Non si è dei nemici oggettivi per quello che si fa o per come lo si fa ma per ciò che si è. È il principio del nemico oggettivo che agevolmente mutueranno i totalitarismi novecenteschi che in queste teorie e in questi sentimenti affondano le loro radici. “Io dico che il re deve essere giudicato come un nemico – dice Sain Just - che dobbiamo combatterlo piuttosto che giudicarlo e che, non rientrando egli nel contratto che unisce i francesi, le forme della procedura non si trovano nella legge civile ma nella legge del diritto dei popoli [...] Gli uomini che stanno per giudicare Luigi hanno una repubblica da fondare: ma coloro che attribuiscono una qualche importanza alla giusta punizione di un re, non fonderanno mai una repubblica [...] cosa non temeranno da noi i buoni cittadini, vedendo la scure tremare nelle nostre mani, e vedendo un popolo che fin dal primo giorno della sua libertà rispetta il ricordo delle sue catene? ”. La mobilitazione e la guerra totali diventano il dovere di ogni buon repubblicano, per cui l’entusiasmo per la nazione e la rivoluzione diventa obbligatorio. Non si fanno più prigionieri: o si è con la rivoluzione e con il suo spirito o si è suoi nemici mortali. E i nemici mortali vanno respinti nel nulla dove il nichilismo ideologico giacobino ritiene di dover spedire chiunque gli si metta di fronte ma anche chiunque non lo sostenga con il necessario e doveroso entusiasmo militante. “Che cosa c’è in comune tra Luigi e il popolo francese, perché gli si usi- no dei riguardi dopo il suo tradimento? [...] Non si può regnare senza colpa. Ogni re è un ribelle e un usurpatore. Gli stessi re tratterebbero diversamente i loro pretesi usurpatori? [...] Cittadini, il tribunale che deve giudicare Luigi non è un tribunale giudiziario: è un consesso, è il popolo, siete voi: e le leggi che dobbiamo seguire sono quelle del diritto dei popoli [...] Luigi è uno straniero fra noi: non era cittadino prima del suo delitto, non poteva votare, non poteva portare le armi; lo è ancor meno dopo il suo delitto [...] ”. Saint Just è anche membro del comitato di salute pubblica e mentre si lega a filo stretto con Robespierre, collaborando con lui alla messa a punto di interventi legislativi, presta servizio come commissario dell’esercito in Alsazia e altre zone di guerra, contribuendo, con spietatezza, a riportare disciplina nell’esercito fino alla vittoria di Fleurus.

Nel 1794 è eletto presidente della Convenzione: può così promuovere l’atto d’accusa contro gli hebertisti e dare l’affondo contro Danton. Il 24 febbraio pronuncia il discorso in difesa del terrore, descritto come strumento per arrivare alla democrazia sociale. Il suo ideale, tratteggiato nei suoi frammenti sulle istituzioni repubblicane, uscito postumo nel 1800, è quello di una società ideale di piccoli coltivatori e artigiani indipendenti retta da un governo rivoluzionario basato sul binomio terrorevirtù.

È evidente si trattasse di un’utopia, del sogno di una fantasia ardente e squilibrata. Ma vi era in questa visione anche il frutto di un’esperienza diretta. Fino al 1792 Saint Just si era diviso fra Parigi e Blerancourt dove aveva vissuto l’esperienza della rivoluzione contadina dell’ 89. Da qui, complice anche la fitta frequentazione coi sanculotti, la teorizzazione politica non più legata al costituzionalismo liberale ma alle teorie di Rousseau. Una società di eguali dipendenti solo dalle leggi, cui si doveva garantire la sussistenza. Da qui i decreti voluti da Saint Just sull’assegnazione ai patrioti bisognosi dei beni di persone sospette. Saint Just sognava una società morale, retta dall’amicizia e dalle virtù civiche. Scettico che questo risultato fosse il frutto di un’evoluzione spontanea della società Saint Just aveva pensato alla creazione di comitati speciali di sorveglianti della morale: un modello sociale tra Sparta e Roma repubblicana senza tuttavia l’armonia di una tradizione e del mos maiorum ma con l’imposizione violenta dell’ideologia. Del resto Saint Just aveva dato prova di essere un esaltato nell’esposizione accesa delle teorie che gli capitava incrociare e di esporre alla Convenzione. Era arrivato a chiedere di bandire dal Paese tutti quelli che non hanno amici, proibire alle fanciulle vergini di camminare sole per la strada, mettere fine a tutti i matrimoni dove dopo sette anni non è ancora nato un bambino. Un giacobino puro con una fede cieca e assoluta nelle virtù imposte dal direttorio e decretate dalle elite rivoluzionarie. Del resto Robespierre non aveva detto che “La funzione del governo è di dirigere le forze fisiche e morali della nazione verso lo scopo della sua istituzione”? E non aveva ripetuto Lepelletier che “considerato a qual punto la specie umana è degradata è necessario pensare a una sua intera rigenerazione? ” Robespierre nel difendere poi la legittimità del governo rivoluzionario contro il governo costituzionale aveva detto: “Non le passioni particolari devono dirigerlo, ma l’interesse pubblico. Esso deve avvicinarsi ai principe ordinari in tutti i casi nei quali questi possono essere applicati rigorosamente senza compromettere la libertà pubblica. La misura della sua forza dev’ essere l’audacia e la perfidia dei cospiratori; più terrore suscita ai malvagi, più deve essere favorevole ai buoni; più le circostanze gli impongono certi atti di rigore, più deve astenersi da misure che restringano inutilmente la libertà e che feriscano gli interessi privati senza alcun vantaggio pubblico. Esso deve navigare in mezzo a due scogli, la debolezza e la temerità, il moderatismo e l’eccesso: il moderatismo che sta alla moderazione come l’impotenza sta alla castità; l’eccesso che assomiglia all’energia come l’idropisia alla salute”. E allora suona strano che anche Saint Just dicesse: “Il legislatore comanda all’avvenire. A lui tocca volere il bene. A lui tocca di rendere gli uomini quelli che egli vuole che essi siano”. Ecco allora dove nasce il rigorismo incoraggiato, va detto, da una dilagante corruzione politica e da forti spinte controrivoluzionarie. Da qui nasce la stagione del terrore che vede Robespierre e Saint Just appunto come arcangeli della morte all’opera, secondo la suggestiva definizione di Michels. Inghiottiti dallo stesso vortice che seppero scatenare. Saint Just salirà sul patibolo il 28 luglio del 1784 assieme ad altri 22 giacobini. Era nato il 25 agosto di 250 anni fa. I suoi Frammenti sulle istituzioni repubblicane furono pubblicati quindici anni dopo la sua morte. In essi tra le altre cose si legge: “Io disprezzo la polvere di cui sono fatto e che vi parla; si potrà perseguitare e far morire questa polvere, ma sfido a strapparmi la libertà e la vita indipendente che mi sono dato nei secoli e nei cieli”.