Giallo sul suicidio avvenuto venerdì scorso all’interno della camera di sicurezza della questura di Bologna. Parliamo del senegalese Oumar Ly Cheikou tratto in arresto dai poliziotti perché la convivente, in seguito ai maltrattamenti ricevuti, li ha contattati per farli venire in casa. Qui c’è un buco nero. La dinamica dell’arresto e del suicidio viene spiegata con un generico comunicato stampa della polizia. «Purtroppo non conosco i dettagli – spiega a Il Dubbio Rosa Ugolini, l’avvocata difensore dei familiari del senegalese -, perché non ho avuto accesso alla relazione della polizia che racconta in che modo è stato tradotto in questura, quante persone erano presenti nel momento del suicidio». Inizialmente, il pubblico ministero, assieme al medico, aveva costatato il decesso e sembrava finita lì. Dopodiché il magistrato Giuseppe Amato ha deciso di disporre l’autopsia per fugare ogni dubbio. Quindi si è aperto un fascicolo per omicidio colposo e sono sotto indagine i due agenti di polizia che sarebbero stati presenti in questura. «Non ho nessun elemento necessario per fare alcuna ipotesi – spiega sempre l’avvocata Ugolini -, l’unica cosa che sappiamo è che il decesso è avvenuto intorno alle 22: 50/ 23 con l’intervento del 118 che la compagna ha visto giungere in questura».

L’autopsia verrà effettuata oggi e solo così si potrà confermare o meno la causa della sua morte. Nel frattempo rimane l’interrogativo se la camera di sicurezza della questura di Bologna sia idonea o meno ad accogliere gli arrestati. Interviene nella vicenda anche il consiglio direttivo della camera penale di Bologna. «Si apprende da fonti sindacali - scrivono infatti il presidente Roberto D’Errico e il segretario Ettore Grenci - che nella questura di Bologna i locali da vigilare sono quattro, con organico che molto spesso prevede il servizio di soli due agenti, e che il sistema di sorveglianza a mezzo telecamere, installato per controllare in tempo reale le celle di sicurezza, si blocca spesso diventando di fatto inutilizzabile». Continua il comunicato dei penalisti: «Il consiglio è sempre stato convinto che non si possa intervenire su vicende così delicate con facili semplificazioni o, peggio, sommari processi, tanto più che sono in corso ac- certamenti per stabilire esattamente modalità e cause di tale tragico gesto. Non si può tuttavia nascondere profonda inquietudine nell’aggiungere un’altra persona alla lista dei tanti, troppi, che ogni anno si tolgono la vita in condizione di restrizione della propria libertà personale».

Le camere di sicurezza sono delle stanze presenti nelle caserme dei carabinieri e nelle questure che servono per trattenere le persone in attesa di un processo per direttissima. L’idea di ricorrere più spesso a questa modalità è stata partorita dall’ex guardasigilli Paola Severino per evitare le cosiddette “porte girevoli” che ingolfano gli istituti penitenziari. Quindi le persone possono essere trattenute per 48 ore. Paradossalmente, in alcuni casi, sarebbe preferibile il carcere. Le camere di sicurezza, in alcuni casi, non possiedono nulla: non hanno finestre, non hanno bagno, non hanno acqua corrente, non hanno strutture dove poter far respirare una boccata d’aria, non hanno mense dove poter consumare i pasti. Ma non solo. Il Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura, nella sua ultima relazione, ha evidenziato che nelle camere di sicurezza non risulta nessun registro relativo alla custodia delle persone. Oppure, ancora peggio, i registri vengono compilati a posteriori. Messa così, può risultare che le camere di sicurezza siano un vero e proprio buco nero dove, in teoria, può avvenire di tutto. E infatti non è la prima volta che sono accaduti dei fatti tragici. Tre sono i casi, alcuni definitivamente archiviati, che destano ancora qualche perplessità.

Uno riguarda Georgi Bacrationi, georgiano clandestino di 25 anni, che l’ 8 ottobre 2008 aveva rubato un lettore Mp3 dalla Feltrinelli milanese di corso Buenos Aires e venne fermato dagli uomini dell’Unità operativa contro la criminalità diffusa. Venne condotto, in stato di arresto, presso la camera di sicurezza situata nel sottosuolo della questura di via Fatebenefratelli. Ufficialmente morto per overdose da metadone. L’allora pubblico ministero di turno, incaricato dell’indagine, Giulio Benedetti, volle vederci chiaro. Fece prelevare ogni tipo di campione della camera di sicurezza con la porta blindata, la branda e un lavandino. Vi trovò tracce di metadone. Georgi Bacrationi, insomma, era morto di overdose dopo aver assunto la droga proprio in questura. Quanto basta per ipotizzare l’omicidio colposo. Ma la mancanza di un nesso provato tra la presenza dello stupefacente e la morte portò all’archiviazione. Eppure rimane la domanda rimasta inevasa per sempre: com’è possibile morire per overdose dentro una questura?

Stessa sorte toccata, un anno prima, ad Antonio D’Apote, un tossicodipendente di 49 anni. Fermato dalle Volanti in evidente stato di agitazione, probabilmente dovuta all’assunzione di droga, D’Apote venne portato nella questura milanese non senza difficoltà. I verbali di arresto parlano di resistenza e minacce a pubblico ufficiale e di gravi atti di autolesionismo: avrebbe sbattuto così tante volte la testa da solo che si è ammazzato. Sì, sempre all’interno della camera di sicurezza. Questa storia non può non evocare una vicenda simile. Questa volta nella questura di Varese. Parliamo di Giuseppe Uva, di mestiere gruista, morto esattamente il 14 giugno 2008 nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Circolo, dopo aver passato una notte nella caserma dei carabinieri di via Saffi a Varese. La sorella Lucia ha potuto osservare il corpo nell’obitorio. Presentava una grossa tumefazione viola sul naso, la nuca, al tatto, era segnata da un bozzo gonfio. Scendendo lungo il corpo, si trovava un livido enorme sulla mano e il fianco era attraversato da lunghe strisce viola. E poi portava un pannolone bianco da adulto incontinente che gli cingeva i fianchi: a spostare i lembi, di quel pannolone, si vedevano i testicoli tumefatti e una traccia di sangue che fuoriusciva dall’ano. Ufficialmente, come nel caso di D’Apote, si è fatto male da solo mentre era trattenuto in questura. La sorella Lucia ancora attende la verità e in questi giorni si sta svolgendo il processo d’Appello.