«Se il pm non vuole incorrere nell’avocazione, eserciti l’azione penale nei tempi». Giorgio Spangher, professore di diritto processuale penale all’università La Sapienza di Roma, analizza l’istituto dell’avocazione, tanto più controverso dopo le modifiche al codice di procedura penale introdotte con la legge 103/ 2017.

Professore, la possibilità di avocare l’inchiesta da parte del procuratore generale non è una novità nel nostro ordinamento.

Anzitutto chiariamo: l’avocazione è la sottrazione di un fascicolo da parte dell’organo di grado superiore - il Procuratore Generale- dall’ufficio di rango inferiore - il procuratore della Repubblica. Si tratta di un istituto che era già previsto nel codice del 1930 e, allora, aveva una struttura molto articolata: il che si giustificava con il fatto che allora il Procuratore Generale era alle dirette dipendenze del Ministero, il quale aveva così il potere di ordinare la sottrazione del procedimento ai pm che non erano ben orientati rispetto al regime.

In quali termini è previsto oggi nel nostro ordinamento?

Con la riforma del 1988, questo enorme potere è stato tolto dalle mani dei Pg, ridimensionandolo. Secondo il codice, l’avocazione è prevista quando il capo dell’ufficio non ha provveduto alla sostituzione del pm in caso di incompatibilità e se il pm non completa le indagini nei tempi previsti. In questi due casi, il Pg avoca il fascicolo e ha 30 giorni per completare le indagini e decidere se procedere all’archiviazione o all’esercizio dell’azione penale.

La riforma Orlando come integra questa previsione?

La norma prevede che il pm ha tre mesi di tempo dalla scadenza dei termini di cui all’art. 415bis c. p. p. - prorogabili di altri tre nel caso di reati complessi e 15 mesi nel caso di reati di criminalità organizzata - per esercitare l’azione penale. Nel caso in cui non lo faccia, il Pg ha il potere di avocare il procedimento, decidendo dunque se archiviare o se chiedere al gip il provvedimento di udienza preliminare.

Come spiega le reazioni dei pm contro questa previsione?

Semplice: ogni volta che alla magistratura viene fissato un termine perentorio, la categoria alza gli scudi perchè teme di non riuscire a rispettarlo e dunque di poter incorrere in procedimenti disciplinari. Gli avvocati lo sanno bene: i termini perentori sono sempre ansiogeni per chi li deve rispettare. Esiste poi una ragione anche di merito, con riguardo alle indagini.

E quale sarebbe?

Il potere di avocazione fa sì che il processo passi nelle mani di un soggetto diverso, il quale può decidere in modo contrario rispetto a come aveva ipotizzato il pm titolare, e anche indagare ulteriormente nei 30 giorni previsti dalla norma. Insomma, i pm possono sentire la pressione della struttura verticistica degli uffici.

Non si tratta, in questo senso, di una norma pericolosa nella misura in cui permette di sottrarre le indagini ai titolari?

No. Se al pm interessa tenere il procedimento, può tranquillamente decidere per l’archiviazione oppure di esercitare l’azione penale nei termini. In questo caso, non esiste il pericolo dell’avocazione. In realtà, nella pratica, il pubblico ministero ha il potere di mandare avanti alcuni procedimenti e di tenerne altri in stand- by.

L’avocazione incide in qualche modo sull’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale? In ipotesi, il Pg potrebbe usare un criterio discrezionale solo di alcuni procedimenti, magari quelli più sensibili.

No, in nessun modo. La ratio della norma è quella di imporre un’accelerazione processuale e, quando all’obbligatorietà dell’azione penale, la discrezionalità rimane in mano ai pm. Nella pratica, infatti, possono esercitare l’azione penale in alcuni procedimenti e congelarne altri. Il pm decide come indagare e quanto a fondo, se poi archiviare o esercitare l’azione penale e in che tempi. Inoltre, nel caso di avocazione in caso di mancato esercizio nei 3 mesi, il pm ha già concluso le indagini e il fascicolo è depositato e in ordine per il potenziale inizio del procedimento.

Nessuna discrezionalità, dunque?

No, non ne vedo il modo. Questa norma, è vero, impone una verticalizzazione degli uffici, con il Procuratore Generale che ha la possibilità di impossessarsi del fascicolo del pm. Ripeto però: questo può avvenire nella misura in cui il pm non fa ciò che dovrebbe. Se il pm esercita l’azione penale nessuno può togliergli il processo.

Lei vede pericoli in questa norma?

Guardi, l’istituto dell’avocazione esisteva anche prima di questa riforma, ma negli anni precedenti non se ne è praticamente fatto uso. Aggiungo anche che, nella pratica, non credo che il Procuratore Generale abbia alcun interesse a mettersi in conflitto con i Procuratori della Repubblica, per poi magari finire a giudizio davanti al Csm per eventuali abusi. Ecco, io credo che nessuna delle due parti abbia interesse pratico ad alimentare conflitti su questo piano. La norma va letta per ciò che è: un tassello per provare a ridurre i tempi del processo penale.

Non è anche un avviso per il pm?

La riforma Orlando segue il filo rosso del tentativo di contingentamento dei tempi attraverso la fissazione di termini stringenti e l’avocazione rientra in questa logica. Certo, la norma è anche una sorta di cartellino giallo per i pm che lasciano in stand- by i procedimenti.

Potrebbe essere in qualche modo risolutiva?

E’ chiaro che non risolve il problema, ma è un segnale. Il problema del processo, infatti, non è la durata delle indagini ma i tempi morti: il pm può indagare anche due anni e si tratta di una attività funzionale all’esercizio dell’azione penale, ma dopo l’avviso di conclusione delle indagini non deve lasciare il fascicolo nell’armadio per mesi. La questione da risolvere è la stasi: il tempo tra una fase processuale e l’altra che allunga inaccettabilmente i tempi. Questo è il punto su cui si è cercato di intervenire.