«Il reato di diffamazione specie “a mezzo internet” o più precisamente “a mezzo social network” non basta per punire il linguaggio dell’odio. Diventa necessario e urgente mettere mano alla legislazione se si vuole garantire lo sviluppo di un dibattito politico razionale». Mario Morcellini, Commissario dell’Agcom nonché professore ordinario di Comunicazione e già Prorettore alla Comunicazione Sapienza Università di Roma, è vigile sull’hate speech che infetta parte dell’informazione e soprattutto i social network. Per i quali chiede di valutare quanto essi possano essere davvero definiti social, almeno «nella misura in cui sono alleati del populismo e luogo per dar sfogo a veleni personali». Così rischiano di diventare un pericolo per la democrazia, quando si alimenta un clima in cui approfondire esprimere la propria opinione avviene troppo spesso senza un minimo di riflessione e di pensiero: «perché approfondire, per alcuni, rappresenta uno sforzo eccessivo – spiega al Dubbio -. Siamo arrivati ad una fase in cui sembra quasi che chi sa di non sapere si sente più abilitato che mai ad intervenire. In altre parole: l’ignoranza ex catedra» .

Professore, quali sono le origini del linguaggio dell’odio?

C’è da fare una premessa, non ancora scientificamente sicura, ma almeno ricca di indizi. Il linguaggio dell’odio certamente trae alimento dall’individualismo e dal populismo, ma queste sono risposte più semplici e semplicistiche. Il populismo non coincide con il berlusconismo, come pensano in troppi, ma con un modo di amputare la conoscenza di tutti i suoi attributi di complessità e di fatica ( non a caso si chiama studium), finendo per trasformarla in chiacchiemomento ra senza una qualunque forma di sequenza logica del discorso. Una delle origini sicure del linguaggio dell’odio è nell’estremismo politico di varie derivazioni, fatto anche di movimenti che provengono dai mondi della controcultura che ha costruito la propria identità ( in passato nascosta e minoritaria), ma che la rete quale potente strumento di amplificazione - ha fatto diventare un esercito autorizzato a dire in pubblico qualunque cosa passi per la testa. Alcune parole, alcuni lemmi ottenuti per semplificare – come ad esempio l’utilizzo di “extracomunitario” al posto di “migrante” - nascono da mondi che per anni si sono industriati nello scambiarsi più slogan che argomenti. Per queste aree sociali conta esclusivamente sentirsi opposizione, a prescindere, che si eccita soprattutto contro chiunque, anche per un attimo, e che finisce per identificare doveri e compiti. Dovremmo profondamente ragionare sull’inquinamento provocato da queste ondate sottoculturali di antagonismo verbale, che trovano la loro ragion d’essere nella controcultura. Anche qui occorre precisare che in passato la controcultura era un prezioso di correzione del pensiero dominante, mentre oggi non cerca nessuna forma di comunicazione con esso.

Dove attecchisce maggiormente questo tipo di linguaggio?

Accanto a questa corrente culturale che sbrigativamente definiremmo un po’ radical, c’è un populismo di pancia: quello di chi non ha studiato, ma che non avverte minimamente alcun senso di inferiorità. Non stiamo parlando di persone che non hanno avuto le chance di studiare, ma di gente che considera il libro, l’informazione scritta, o qualunque approfondimento, troppo faticosi. A questo target bastano gli slogan, come l’immigrato che ruba il lavoro. Queste frasi sono drammatiche per la loro semplificazione. Perché non si tratta soltanto di parole, ma di lessici imperativi e sempre iterativi. La lingua si trasforma così in spot pubblicitari a danno ripetuto.

Quali sono i bersagli preferiti di chi utilizza questo vocabolario?

Le donne, anzitutto. In questo tipo di linguaggio ci sono residui di antifemminismo, quel femminismo che è diventato senso comune, l’ovvia presa d’atto della parità. A queste persone non passa nemmeno per la testa che la parità sia una parola denotativa della modernità. E scatta soprattutto se le donne di cui stiamo parlando hanno ruoli di potere, come la presidente della Camera Laura Boldrini. Negli attacchi nei suoi confronti, all’antifemmisnimo si associa infatti anche una componente anti istituzionale. Altri bersagli sono i gay e gli immigrati. E qui è interessante dire che si ricorre a espressioni che il giornalismo italiano, non il migliore al mondo, ha rottamato da tempo. La Carta di Roma è riuscita in qualche modo a liberare la stampa italiana e l’informazione televisiva da certi termini che invece nel web dilagano tranquillamente. Stiamo parlando di mondi che, letti complessivamente, rappresentano efficacemente il risultato di messaggi reiterati e sempre più semplificati da parte dei media: l’insicurezza percepita è certamente più drammatica di quella fondata su dati reali; la percezione sociale di paura si basa più su fatti ricamati dalla comunicazione che sull’esperienza reale. Ne sono prova i dati sugli immigrati percepiti nel nostro paese: tutte le ricerche ci dicono che sono il doppio o il triplo di quelli effettivamente presenti.

Quindi l’informazione in questa deriva del linguaggio ha delle responsabilità?

Sì. Molti si accontentano di esacerbare gli animi alla ricerca di un tagliando di pubblico. È ciò che si chiama “shock communication”. Non sempre l’informazione ha la forza e l’equilibrio di richiamare ad una obiettiva serenità i discorsi collettivi. I talk show gridati, di alcune emittenti, ne sono una prova persino ridondante» .

Perché i social diventano drammatici?

Perché ogni forma di mediazione viene abolita. Anche chi contesta la qualità del giornalismo lo fa comunque mantenendo un credito alla mediazione, rappresentata da qualcuno che verifica i dati. Se nella rete non c’è questa possibilità essa rischia di diventare alleata del populismo. Questo tipo di comunicazione è tutt’altro che social. È antisocial nella misura in cui da sfogo all’incattivimento individuale e allo strido ogni giorno più forte. Ma noi non possiamo pensare che la rete si confonda come medium per l’odio.

Qual è l’economia politica di questa situazione?

Per capirlo, occorre studiare partiti e movimenti che drammatizzano lo scontro politico. Ma abbiamo la prova che in altri paesi l’uso spregiudicato delle fake incide sul risultato elettorale. Basta studiare la vicenza Clinton - Trump a distanza di tempo.

Non sarebbe il caso di prevedere un reato diverso dalla diffamazione per l’hate speech?

Sicuramente sì. La legislazione non è del tutto adeguata ai cambiamenti rapidissimi della comunicazione e dell’informatica. Se si vuole garantire uno sviluppo del dibattito politico bisogna porre mano alle norme, a partire dalla co- regolamentazione e dall’autoregolamentazione. Bisognerebbe domandarsi se in comunicazione esiste un principio di proporzionalità tra l’attacco e la difesa, ma è certo che in rete questa possibilità svanisce. Il reato di diffamazione tradizionale riguarda l’attacco “punto punto” ossia un soggetto che diffama un altro soggetto mediante un mezzo di comunicazione di massa. Ciò che accade in rete e in particolare nei social è, in molti casi, più invasivo in quanto le fake news, l’hate speech e il cyberbullismo attaccano la dignità umana e il principio di non discriminazione in senso ampio; cioè non si limitano ad attaccare una persona ma spesso il sistema intero, la politica, la classe dirigente. Inoltre, occorre ricordare che mentre nei giornali, nelle televisioni e in radio vi è una responsabilità editoriale dietro chi gestisce un programma o una testata, su internet e sui social non vi è una responsabilità paragonabile. Il legislatore ha di recente adottato un’importante Legge per contrastare il cyberbullismo, prendendo piena consapevolezza del fenomeno. Ma occorre anche prevedere strumenti più efficaci di tutela contro il dilagante aumento dell’odio in rete.

Per molti intervenire in questo senso sarebbe come porre dei limiti alla libertà d’espressione.

Non è assolutamente in discussione la libertà di espressione. Questa è una delle tante balle che si raccontano talvolta offrendo un alibi al linguaggio dell’odio. Dietro i casi raccontati dai giornali ci può essere un giacimento di dolore, storie senza voce, molto più diffuse di quelle che arrivano alla superficie. Di questi casi noi vediamo ovviamente la parte che i media ci raccontano, ma sono certamente la punta di un iceberg.

Quale potrebbe essere la soluzione?

Forse bisognerebbe sperimentare stili di narrazione, che riescano a stigmatizzare, anche con l’ironia, i comportamenti violenti. A novembre terremo in Sapienza un seminario sul cyberbullismo in cui proponiamo l’immagine del bullo come variante dell’analfabetismo, anche la scuola dovrà fare molto tematizzando questa ferita della società e della comunicazione.