ANALISI

Compitata la sciarada della prudenza - assolutamente obbligatoria quando da una parte ci sono candidature da decidere e dall’altra c’è Silvio Berlusconi - e perciò fatti salvi i sempre possibili colpi di scena, per chi ama andare al nocciolo delle questioni il dato politico è semplice: alle regionali in Sicilia il centrodestra appare aver scelto di presentarsi unito nella formazione ufficiale a tre punte ( si sarebbe detto una volta): Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia; e con un candidato presidente ( il presunto vice, come il ticket, è una simpatica trovata comunicativa di Micciché ma dal punto di vista degli equilibri sposta poco) che appartiene al lato destro dell’alleanza, ossia Nello Musumeci.

Si può dire, dunque, che l’ex Cav - diversamente da quanto accaduto a Roma con il sostegno prima a Bertolaso e poi a Alfio Marchini che spianarono la strada al trionfo dei Cinquestelle stavolta ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco e subire le condizioni degli alleati? Si può dire eccome. A patto però di mettere subito dopo in fila sia i vantaggi che questa scelta comporta sia i rischi che determina: anche e soprattutto perché risultano piuttosto numerosi in entrambi i casi. Centrodestra unito in Sicilia Scelta obbligata con incognite

Cominciamo dai primi. La candidatura unitaria era la condizione imprescindibile per provare a vincere nell’isola e la vittoria, come si sa, a Silvio piace. Il tentativo di associare Angelino Alfano e gli altri centristi alla coalizione era in teoria giusto, anche sapendo di dover scontare le tanto esose quanto giustificate richieste del ministro degli Esteri. Quel che alla fine ha fatto la differenza, e che perciò diventa cardine politico di notevole spessore, è stata la richiesta di Ap di connotare l’accordo siciliano come viatico di una intesa da trasferire a livello nazionale per le prossime politiche. Condizione che in nessun caso Berlusconi poteva garantire e che è stato facilissimo per Salvini e Meloni contrastare. Qualcuno in questo passaggio ha commesso un errore fatale: tra pochi mesi si saprà chi. Il secondo elemento è che il competitor vero in Sicilia non è il centrosinistra, dilaniato da contrasti interni, quanto i Cinquestelle. Come le recenti amministrative hanno dimostrato, una quota non indifferente di consensi ex forzisti trasferitisi negli anni scorsi sotto le insegne grilline possono essere ricondotti alla casa madre. In che modo? In altri contesti, è stato il Carroccio a drenare quei voti; per ultimo la calamita è ridiventata Forza Italia. Ma in Sicilia i leghisti sono popolari come il morbillo. E risulta difficile immaginare che stringersi sottobraccio a chi, bene o male, è al governo da anni assieme a Renzi sia la mossa vincente per recuperare i voti di protesta e quelli di chi ha scelto i grillini per delusione. Meglio presentare il volto di un centrodestra unito e perciò competitivo e, al limite, associare una lista di “indignati” ad hoc. Quella di Gaetano Armao appunto. Alias il “vice”. Insomma le tre punte assemblate come annuncio di alleanza vincente e unico contenitore capace di stoppare Grillo: a Palermo ora; in Italia nel 2018.

Ma proprio qui, all’apice dell’afflato unitario, arrivano i problemi. Stare insieme leghisti, destra e rappresentanti del Ppe, sovranisti e europeisti assieme intruppati, è il mantra costrittivo: la condizione obbligata per prevalere, come visto. Ma se poi quella coalizione invece perde, che succede? C’è una carta di riserva? Silvio a quel punto molla Matteo ( Salvini) e torna a guardare Angelino ( Alfano)? Molto, ma davvero molto, complicato. Ma allora l’unitarietà è una strada a senso unico? E conviene?

Senza contare l’ostacolo più grande, quello vero. Anche ripudiando il listone ( a proposito: il sistema elettorale tedesco che Berlusconi vuole assolutamente riprendere, a questo punto che fine fa?) e presentandosi divisi «ma con un programma comune» come dicono gli esegeti ammettendo però che quel programma ancora non è ultimato, resta il problema di chi sarebbe il candidato premier. «Il leader che prende più voti», è la giaculatoria. Sì’, ma chi scenderebbe in lizza per FI? L’ex Cav, come è noto, è incandidabile salvo diversa pronuncia della Corte europea di Strasburgo. Che si riunirà a novembre e emetterà il verdetto mesi dopo, non si sa se in tempo utile per le elezioni. E nel frattempo? Berlusconi dovrebbe scegliersi un rappresentante, un sostituto. Acrobatico trovarlo. Ma il punto è: se poi il centrodestra unito prevale nelle urne e questo mister X prende meno voti di Salvini, alzi la mano chi davvero crede che Berlusconi accetti di fare la comparsa in un governo guidato dal capo leghista. C’è chi assicura che i giudici della Corte siano sensibili alle convinzioni della signora Merkel. La quale, come è noto, vede di cattivissimo occhio un governo in Italia condizionato da Salvini. Figuriamoci poi se lo dovesse guidare. Dunque la salvezza è che la sentenza riabilitativa arrivi all’inizio del prossimo anno. Poi Berlusconi dovrà vincere le elezioni. Sempre con Salvini, però: è l’unico modo, giusto? E si ricomincia daccapo.