Sale a 34 il numero dei suicidi dall’inizio dell’anno, a questo si aggiungono 72 morti per cause naturali. È come un inarrestabile fiume in piena la lunga scia di morte che interessa le patrie galere. Si muore per cause naturali – molto spesso causate da cure poco adeguate -, per suicidio e anche dopo aver tentato di suicidarsi. L’ultimo decesso per conseguenza di tentato suicidio è avvenuto ieri. Si tratta di un detenuto che, la settimana scorsa, si era impiccato nell’infermeria del carcere comasco del Bassone. La polizia penitenziaria aveva tentato di salvarlo, ricoverato d’urgenza in ospedale, era entrato in coma e ieri è morto. Dall’inizio dell’anno si tratta del secondo suicidio avvenuto nello stesso carcere, prima di lui a togliersi la vita era stata una donna somala di 37 anni. Fu lei che “inaugurò” la lunga lista di sucidi dall’inizio dell’anno. Il 4 gennaio scorso era da sola, in una cella di isolamento, e ha deciso di togliersi la vita. Celle di isolamento che poi sono state chiuse, ma solo quelle che riguardano il reparto femminile. Era in carcere da due anni, arrestata per reati contro il patrimonio che le erano costati tre anni di condanna: a luglio di quest’anno sarebbe ritornata in libertà, anche se era senza un punto di riferimento in Italia a cui rivolgersi o una dimora fissa.

Un altro carcere difficile, dove si continua a morire, è quello di Barcellona. Nei giorni scorsi un 70enne, con disagio psichico, aveva avuto un ictus ed è morto in ospedale nello stesso giorno nel quale è avvenuto il suicidio di un recluso dello stesso carcere. Ora ha un nome il detenuto che si sarebbe tolto la vita all’ex Opg, convertito in istituto penitenziario, di Barcellona Pozzo di Gotto. Si chiamava Maurizio Famà, catanese di 38 anni accusato di furti di auto e rapine. Secondo la ricostruzione del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, si sarebbe impiccato al sifone del bagno della cella.

Eppure qualcosa non torna. Secondo i familiari che hanno poi visto il corpo del defunto, Famà non presenterebbe segni da strangolamento al collo. Eppure, in caso di suicidio per soffocamento, i segni dovrebbero essere visibili. C’è anche un altro motivo per il quale i familiari mettono in dubbio la versione ufficiale. Il giorno prima del ritrovamento, Famà aveva fatto un colloquio con la famiglia e non aveva presentato nessun segno di malessere, anche perché attendeva la fine di agosto per chiedere un’istanza di scarcerazione. A chiarire la causa della sua morte sarà l’esito dell’autopsia effettuata ieri e per i risultati bisognerà aspettare qualche giorno. Il legale della famiglia ha richiesto anche l’accertamento tossicologico.

IL DISAGIO DELL’EX OPG

Quello di Barcellona Pozzo di Gotto è stato l’ultimo opg a chiudere definitivamente. Gli ultimi pazienti sono stati trasferiti a febbraio scorso. Le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza ( Rems) che dovrebbero sostituire quella che è stata chiamata una delle vergogne del nostro sistema giudiziario e sanitario, sono state attivate in quasi tutte le Regioni ( rimane ancora da aprire quella di Empoli) e hanno visto transitare più di 900 persone e uscirne circa 400, a dimostrazione che il sistema è in via di funzionamento e che le rems non sono un carcere a vita. Eppure non bastano. Sparsi nelle patrie galere, oltre ai detenuti psichiatrici che vivono nei reparti specifici per l’assistenza e che nella maggioranza dei casi risultano inadatti, ci sono pazienti psichiatrici che dovrebbero stare nelle Rems, ma in mancanza di posto rimangono reclusi nelle carceri. E questo vale anche per la casa circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto. Infatti, vi sono recluse due persone che erano sottoposte a regime di detenzione e che, una volta terminata, sarebbero dovuti andare in una Rems: ma non ci sono posti, perciò nonostante le plurime richieste alla magistratura di sorveglianza da parte della direzione del carcere, per il momento rimangono reclusi. Attualmente, l’ex Opg, ospita 45 detenuti psichiatrici, 14 per sopravvenuta malattia mentale ( tanti sono i reclusi che si ammalano di patologie psichiatriche durante la detenzione), 18 in osservazione psichiatrica e i due che dovrebbero stare in una rems. Un disagio che porta a diverse conseguenze. Anche il suicidio. Esattamente come è avvenuto l’anno scorso, sempre al carcere di Barcellona Pozzo Di Gotto, a un detenuto di 40 anni che doveva essere trasferito in una Rems.

MORTI POCO CHIARE

Dietro ogni gesto di questo tipo, ci sono tristi vicende umane che l’istituto penitenziario non solo non le attenua, ma l’esaspera ancora di più. Però, come nell’ultimo caso di Barcellona Pozzo di Gotto, non tutte le morti classificate come suicidi, sono così chiare. Proprio quello del Bassone, gli addetti ai lavori lo chiamano “il carcere dei suicidi”, perché era già stato sotto i riflettori nel 2014 a causa di tre suicidi avvenuti nel giro di poco tempo. Tra i tre, uno è emblematico e definitivamente arÈ chiviato. Il 31 ottobre del 2014, verso le 16 del pomeriggio, il 28enne Maurizio Riunno era stato trovato impiccato con un lenzuolo alla finestra della sua cella. Riunno era stato arrestato dieci giorni prima per sequestro di persona e si trovava in carcere in custodia cautelare. Era già stato arrestato in passato ed era stato liberato poche settimane prima del nuovo arresto. Si trovava in una cella a parte riservata ai detenuti che hanno problemi di convivenza con gli altri, una specie di isolamento: nel suo caso si trattava di esigenze giudiziarie legate alle indagini ancora in corso. La procura di Como aveva aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio, una pratica necessaria per effettuare l’autopsia che ha confermato la morte per asfissia. La famiglia però è rimasta convinta che Riunno non si sia suicidato, soprattutto per via di alcune lettere che aveva scritto alla compagna in cui parlava del futuro, della voglia di ricominciare una vita con lei e i tre figli piccoli, e con cui chiedeva francobolli per continuare a scriverle. Tutti elementi che facevano presagire che, lui, alla vita ci teneva. La donna aveva anche raccontato di aver guardato il corpo di Riunno prima dell’autopsia e di aver fotografato «un occhio nero, una spalla violacea, graffi sulle mani, graffi sul collo». Ha anche scoperto che la procura aveva sequestrato quattro lettere che aveva inviato a Riunno e una scritta da lui. La famiglia aveva chiesto aiuto alla radicale Rita Bernardini per fare chiarezza sull’accaduto ed era stato anche oggetto di un’interrogazione parlamentare da parte dell’esponente del Pd Roberto Giachetti rivolta al ministro della giustizia Orlando. A marzo del 2015, il giudice delle indagini preliminari ha rigettato la richiesta di archiviazione, accogliendo anche il ricorso presentato dall’avvocato Massimo Guarisco, legale prima di Riunno e ora dei suoi familiari. Ma si concluse tutto con una definitiva archiviazione. Per la giustizia il caso è chiuso.