Il primo aprile 1933 il partito nazista arrivato al potere due mesi prima dichiarò il boicottaggio di tutti gli esercizi commerciali ebrei in Germania. Fu un fallimento. In Germania l’antisemitismo aveva radici profonde e antiche anche se, allo stesso tempo, probabilmente in nessun altro Paese europeo l’integrazione era altrettanto avanzata. Tuttavia il coinvolgimento, sia in forma attiva che semplicemente complice, del popolo tedesco nella crociata genocida dei nazisti procedette per passi successivi. Le leggi razziali del 1935 non sarebbero state possibili, o comunque avrebbero incontrato ben altra resistenza, nel 1933.

La stessa legge dell’aprile 1933 che colpiva gli ebrei nell’amministrazione statale e nelle professioni, la prima nella quale venivano per la prima volta dall’emancipazione del 1871 presi di mira e fatti oggetto di discriminazione legale gli ebrei tedeschi, fu in realtà applicata nella sua versione più “morbida”. Grazie alle esenzioni dei veterani, dei figli o padri di caduti nella guerra mondiale e degli impiegati in servizio dal primo agosto 1914 l’impatto effettivo della legge fu parzialmente mitigato. Saul Friedlander stima che il 70% degli avvocati e circa metà dei giudici e pubblici ministeri poterono continuare a lavorare, sia pure in un clima di intimdiazione e crescente terrore.

Perché la campagna razziale assumesse realmente i caratteri totali a cui Hitler mirava sin dal principio, perché si arrivasse al pogrom, alla Notte dei Cristalli, a Wansee e alla soluzione finale dovettero entrare in gioco non uno ma diversi linguaggi articolati su piani molteplici e tali da coinvolgere fasce di verse di popolazione. Dovettero essere attivati dispositivi distinti, tra i quali la propaganda rozza e pornografica in cui eccelleva il Der Sturmer di Julius Streicher, con le sue caricature razziste e i suoi continui accenni al pericolo sessuale rappresentato dagli ebrei per le donne ariane, era certamente il più esplicito e osceno ma, da solo, non necessariamente il più pericoloso.

Il tema riguarda l’oggi, non solo la ricostruzione storica. La Germania nazista resta infatti il modello principe della rapidità e radicalità con cui una civiltà può degenerare nel suo opposto, della facilità con la quale può essere operata e recepita una trasmutazione dei valori tale da rendere la disumanità non solo positiva ed encomiabile ma addirittura massima espressione di umanità, in quanto piena attuazione dello scopo evolutivo del genere umano.

Da questo punto di vista, le molte leggi e aggravanti varie che mirano a sanzionare penalmente le espressioni di odio razziale, così come il diffondersi di un senso comune basato sul politcally correct che mette quelle espressioni al bando in ampie fasce sociali, sono un tentativo di contrastare razzismo e antisemitismo punendo le sue manifestazioni più triviali ma ignorando i dispositivi più sofisticati e minacciosi. Il ri- sultato è l’America nella quale la parola “negro” è stata sostituita dalla formula “N- word” ma i neri ammazzati per strada si contano ogni anno a centinaia. Ma è anche un’Italia in cui moltissimi si indignano di fronte a frasi o comportamenti palesemente razzisti ma trovano normalissimo consegnare i migranti ai centri di detenzione libici, pur sapendo che si tratta di lager non per modo di dire ma nel senso pieno del termine, proprio come qualche anno fa reputavano il deserto cosparso di cadaveri in seguito all’accordo di Gheddafi con l’Italia molto più tollerabile che non sentir pronunciare anche da noi la “N- Word”.

Perché un senso comune razzista si diffonda e si radichi è necessario prima di tutto che sia posta una “questione”, cioè che venga dato per assodato non solo dagli energumeni in camicia bruna ma anche da sofisticati intellettuali e pacifici commentatori che esiste un “problema”. Perché ci sia una “soluzione”, finale o momentanea, totale o parziale, deve prima esserci un problema. Allo stesso tempo questo “problema” non può però essere definito e circoscritto con precisione, e la sua indefinita vaghezza vale a renderlo di fatto irresolubile.

In Germania l’esistenza di una “questione ebraica” era universalmente acquisita sin dall’emancipazione del 1871. Dibattiti continui, proliferazione fluviale di articoli, saggi, pamphlet e libelli. Scontri intellettuali spezzo acerrimi accompagnati dal moltiplicarsi di organizzazioni o micro- organizzazioni la cui ragione d’esistere era essenzialmente affrontare, di solito con mezzi radicali, la “questione ebraica”. Ma in cosa consistesse detta “questione”, in una Nazione in cui gli ebrei rappresentavano circa l’ 1% della popolazione ed erano in massima parte perfettamente integrati, sarebbe impossibile dirlo con chiarezza.

La situazione non è molto diversa nell’Europa alle prese con l’immigrazione. Da decenni ormai è data per scontata la presenza di una “questione” i cui contorni sono tuttavia mobili, fluttuanti e incerti. Ogni tentativo di definirne i connotati, dal “portano via lavoro agli italiani” al “costano troppo” sino al “veicolano criminalità e malattie” va infatti puntualmente a sbattere contro i dati di realtà, senza che ciò modifichi di una virgola la percezione diffusa del “problema”.

Il secondo luogo, il discorso dell’odio razziale, deve camuffarsi, spesso anche in buona fede, da “offensivo” in “difensivo”. Al presidente della Repubblica Hindenburg, un tipico conservatore moderatamente antisemita della Germania guglielmina, Hitler rispose nella primavera del 1933 con una lettera nella quale, negando ogni velleità di pogrom, parlava della presenza ebraica in Germania come di “un’inondazione”, termine affine all’attuale “invasione”.

Il compimento del razzismo, il suo trionfo finale, consiste com’è noto nella capacità di negare l’umanità dell’oggetto d’odio. Anche da questo punto di vista i nazisti fanno scuola, più che la volgarità odiosa e da osteria di Streicher fu la derubricazione degli ebrei da esseri umani ad animali ripugnanti, insetti o topi, e addirittura a bacilli e virus a siglare il trionfo della visione nazista.

Non corriamo rischi del genere in Europa, non per ora almeno. Però scontiamo certamente un valore profondamente diverso assegnato alla vita umana. Se i giornali registrassero quotidianamente l’annegamento di decine di francesi o inglesi, americani o canadesi, la reazione sarebbe ben diversa da quella, tutto sommato quasi indifferente, con la quale reagiamo alle stragi di migranti. Sono vite anche quelle: lo sappiamo, lo sentiamo, applaudiamo i tentativi di salvarle, sia pur con convinzione sempre più flebile. Però sono vite che valgono po’ meno, o molto meno, delle nostre o di quelle di chi ci somiglia.