EDITORIALE

Nessuno si sogna di mettere in discussione il valore della concorrenza in una società democratica e moderna. Tantomeno il valore del mercato. Solo che non serve a niente gridare “evviva la concorrenza” se non si ha una idea definita e liberale di come debba funzionare una ordinata società dove il libero mercato convive con i diritti, con lo Stato di diritto, con l’ispirazione della nostra Costituzione. Rispettare il valore del principio di concorrenza vuol dire esattamente questo: realizzare delle politiche che permettano al principio di concorrenza di mettersi al servizio dello stato dei diritti, e non viceversa. Non è una sottigliezza: è la sostanza della politica. Se uno inverte fini e mezzi fa un pasticcio che non finisce più. Non si possono gettare i diritti in pasto alla finanza

Ese si fa accecare dall’ideologia liberista, non per far crescere il grado della libertà ma viceversa per fare piacere a quelli che in politologia si chiamano i poteri forti ( banche, assicurazioni, capitali, finanza), fa un pessimo servizio non solo alla società, ma proprio allo spirito della libertà e forse anche al liberismo. La legge approvata ieri, sulla cosiddetta libera concorrenza, non aiuta in nessun modo né la libertà né la concorrenza: si limita a dare più potere ai capitali e meno diritti ai cittadini. E avrà come conseguenza non quella di migliori servizi a prezzi più convenienti ma esattamente l’opposto: aumenterà i prezzi e renderà meno efficienti i servizi. Prendiamo il caso delle assicurazioni. Cosa cambia? Per esempio cambia il fatto che per un cittadino che si vuol fare risarcire sarà più difficile ottenere il suo scopo e che le assicurazioni potranno con maggior facilità sottrarsi. Sarebbe libera concorrenza? Boh. Oppure prendiamo l’ingresso del capitale privato negli studi degli avvocati. Fino al 30 per cento. Chiunque capisce che se un investitore potente e ricco possiede il 30 per cento di uno studio di avvocati è lui che decide. Ha un senso permettere alla forza della finanza di comandare sul lavoro degli avvocati? Trasformare in un commercio, nel quale prevalgono ovviamente interessi privati e interessi forti, l’esercizio della massima espressione del diritto ( e della stessa Costituzione) qual è la professione di un avvocato? Certo ha un senso: il senso è quello non della liberalizzazione, ma della commercializzazione. Anche i principi, anche i diritto, persino la stessa legge diventano oggetti da esporre su una bancarella. A me sembrava che non fosse questa l’ispirazione del governo di centrosinistra. E non posso nascondere l’impressione che nel governo, magari per ragioni di quieto vivere, abbia prevalso in modo clamoroso e contraddittorio la linea imposta dal ministro Calenda, che non c’entra molto con i programmi del governo e che è lontana mille miglia dal riformismo. Il ministro Calenda – come gli capita spesso – ha mostrato grande sensibilità nei confronti dei poteri economici forti, e assai meno attenzione - se non disinteresse - nei confronti dei professionisti e soprattutto degli avvocati. E a proposito di avvocati, se non mi sbaglio, il ministro Calenda non ha mai mai espresso il previsto parere sul decreto sull’ equo compenso, destinato a riequilibrare almeno in parte i rapporti vessatori tra committenti forti e avvocati. Chissà se il ministro Calenda si pronuncerà o meno sul disegno di legge Orlando, peraltro espressamente appoggiato di recente dalla sottosegretario Boschi, e se poi chiederà che su tale testo venga posta fiducia, così come è stata posta sul ddl concorrenza. Vedremo. E vedremo cosa deciderà di fare il governo che certo, se non inverte la rotta, se non si libera di un po’ di “calendismo”, se non recupera la sua carica riformista, rischia di compromettere definitivamente il già compromesso rapporto con le professioni.