Igiornali di ieri non davano grande spazio a un paio di notizie che invece a noi erano sembrate di discreto rilievo. La prima è quella delle critiche molto aspre rivolte alla magistratura dal Capo dello Stato, dopo la denuncia della figlia di Paolo Borsellino, che si era lamentata perché la Procura di Caltanissetta affossò le indagini sull’uccisione di suo padre, seguendo una falsa pista. La seconda è quella delle critiche rivolte dal capo della polizia Franco Gabrielli al suo predecessore, il famosissimo De Gennaro, per i disastri commessi dalla polizia nel 2001 a Genova e per le sue mancate dimissioni. Di questo parlano gli articoli di Astolfo Di Amato e di Francesco Damato che pubblichiamo nelle pagine interne. Con tutta la buona volontà, è difficile pensare che le due notizie non fossero abbastanza clamorose.

Se il capo della magistratura critica la magistratura e il capo della polizia critica la polizia, beh è un po’ come quando l’uomo morde in cane...

Quali sono, allora, le ragioni della sottovalutazione? Penso che ci siano due ragioni. Che provo a illustrare.

La prima sta nella mutazione genetica che ha subìto il nostro giornalismo negli ultimi due o tre decenni. Fino agli anni novanta, nel giornalismo, quello che contava era la notizia. Intorno alla notizia si costruivano i giornali, si allestivano gli approfondimenti ed eventualmente si lanciavano le polemiche. Ora quello che conta è la polemica.

Ciascuno è libero di decidere con quale pezzo del potere politico vuole polemizzare, e poi intorno alla polemica si costruiscono le notizie. Vere o false, importanti o irrilevanti, conta poco. Ieri per esempio Il Fatto apriva la sua prima pagina con la solita intercettazione del ministro Lotti nella quale il ministro Lotti si limitava a parlare del più e del meno; Libero sui soldi che il governo concede agli immigrati, La Verità sui pensionati che vivono all’estero, Il Giornale sulla avvenuta svolta a destra,

Repubblica sulla non avvenuta svolta a destra. E così via.

Non è una particolarità dei giornali di ieri. È la norma.

Non esiste più nessuna relazione tra importanza delle notizie e prime pagine dei giornali. Perché i giornali hanno perduto ogni aspirazione a volgere una funzione di servizio e di informazione, e si autoconsiderano semplicemente della autoblindo in azione di guerra.

La seconda ragione delle sottovalutazioni sta nella regola aurea che è stata imposta al giornalismo: critica il potere finché vuoi, se il potere è politico; ma non toccare mai gli altri poteri.

Specialmente non toccare mai il potere della magistratura, quello dell’economia, quello degli apparati. Se lo tocchi ti scotti. Puoi sparare cannonate contro il ministro Lotti, anche se non c’è niente da dire, quel giorno, su di lui. Va bene. Ma lascia in pace Di Matteo, taci su De Gennaro.

Questa regola aurea è l’aspetto più inquietante della crisi dell’informazione. Perché riguarda tutti, non solo un gruppo di giornali. E consacra la subalternità del giornalismo al potere. Una subalternità che non è un incidente, o una contingenza, o una debolezza.

No: è un programma, un pezzo del Dna. Il giornalismo baratta il diritto a criticare alcuni settori della politica con l’impegno a non criticare mai il vero potere. MAI. E in questo modo, in cambio della propria sopravvivenza, accetta un ruolo permanentemente servile.

Chi paga il prezzo più grande?

La democrazia, lo paga: perché nel terzo millennio è impossibile concepire una democrazia in assenza di giornalismo