Fino allo scorso anno pochi israeliani conoscevano Avi Gabbay vincitore a sorpresa delle primarie laburiste. La sua presenza nel governo Netanyahu come ministro dell’ambiente d’altra parte è stata appena più che fugace e le sue dimissioni, avvenute dopo l’entrata nell’esecutivo del falco Advigor Lieberman alla Difesa nel 2016, non hanno certo occupato le prime pagine dei giornali. Eppure in pochi mesi Gabbay è andato velocissimo: prima ha lasciato i centristi dei Kalanu ( partito che ha fondato nel 2014 assieme a Moshe Kahlon), poi lo scorso dicembre si è iscritto al Labour dove ha bruciato le tappe e lasciato al palo la vecchia, eterna classe dirigente. Al primo turno ha stracciato il segretario uscente Isaac Herzog, mentre al ballottagio è riuscito a spuntarla contro il navigato Amir Peretz, leader della sinistra interna e uomo vicino ai sindacati. Così, a dispetto delle previsioni di tutti i sondaggi, un outsider sefardita proveniente da una famiglia di ebrei immigrati dal Marocco si è preso in mano il partito delle elites askhenazite.

«I militanti laburisti eleggendo Gabbay hanno compiuto la scelta più irragionevole, assurda, audace e sovversiva, la sua ascesa ricorda quella di Emmanuel Macron in Francia», scriveva ieri il quotidiano progressista Haaretz, fotografando alla perfezione lo stupore con cui i media dello Stato ebraico hanno accolto l’improvvisa svolta al vertice del primo partito di opposizione. Come in tanti altri paesi occidentali, dalla Francia alla Grecia, dalla Spagna all’Olanda, anche in Israele il centrosinistra conosce una profonda crisi politica e tanti sono i tratti in comune con i “cugini” europei: mancanza di una linea definita, gestione oligarchica e gerontocratica degli affari interni, distanza dal territorio, emorragia di consensi. Se all’epoca di Ytzak Rabin il labour aveva oltre 200mila iscritti oggi può contare su meno di 50mila adesioni. Questa condizione agonizzante apre spazi anche ai novizi della politica, ai neofiti come Gabbay, issato in cima al partito soprattutto dalla delusione dei militanti verso i vecchi capibastone e frustrati dall’assistere al dominio del Likud, al governo senza soluzione di continuità dal 2009.

Nato nel 1967 alla periferia più povera di Gerusalemme, padre di tre figli, maratoneta dilettante, Gabbay non fa parte della Knesset ( il Parlamento israeliano) e ha un’esperienza politica limitata: laureato in economia e Business administration all’università di Gerusalemme, ha lavorato come tecnico al dipartimento bilancio del ministero delle finanze, poi è stato direttore generale del gigante delle telecomunicazioni Bezeq international, incarico che ha svolto per 4 anni. Anche i suoi avversari gli riconoscono grandi doti intellettuali e un carisma tranquillo, caratteristica che lo ha aiutato fin da giovane, quando ha svolto il servizio militare nelle prestigiosa unità di intelligence di cui è diventato uno stimato comandante.

Difficile però prevedere quale sarà la linea con cui Gabbay intende rilanciare il Labour e sfidare il blocco di potere di Nartanyahu e compagnia: «Si tratta di un oggetto politico non identificato e uscito dal nulla di cui quasi nessuno può indovinare le mosse», commenta il notista politico Yoav Krakovsky. Nel suo primo discorso dopo la vittoria Gabbay si è impegnato a costruire un’alternativa credibile al Likud per le elezioni del 2019, riconquistando la vecchia base laburista frustrata e disillusa: «Andremo a fare campagna casa per casa». Sul rovente dossier israelo- palestinese si dice favorevole alla creazione di uno Stato smilitarizzato confinante con Israele e insiste sulla centralità della questione economica nei Territori dove a suo avviso il conflitto viene alimentato principalmente dalla povertà della popolazione.