Tre anni dopo il ddl penale è legge. Non una riforma epocale del processo, eppure il Parlamento l’ha vissuto con un tormento degno di un cambio di forma di Stato. L’ultimo dibattito non fa eccezione. Sarà pure che «avevano perso e qualcosa dovevano dire», come concede un Andrea Orlando comprensibilmente rasserenato, ma sentire i grillini che urlano in Aula «è una schifezza piena di porcate» fa un po’ impressione. Certo di rado si registra tanta divergenza di vedute su un provvedimento. Il premier Paolo Gentiloni ricorre a un tweet per rilevarvi «equilibrio e garanzie nelle procedure». Poi visto che neppure il sobrio premier vive sulla luna, negli altri 30 caratteri a disposizione ricorda che il testo include «pene severe per i reati più odiosi», ovvero rapine e furti in appartamento. Al giorno d’oggi la merce che tira sono le manette e anche i garantisti di governo si adeguano. Ma se senti Ignazio La Russa apprendi che le misurate aperture sui trattamenti detentivi sono «un’istigazione a delinquere». E se parla il leghista Nicola Molteni scopri che in carcere non ci andrà più nessuno. Punti di vista? No, propaganda acquistata al mercato meno costoso, quello della giustizia penale appunto.

Finisce con un doppio voto: in mattinata la “chiama” sulla fiducia ( 320 sì, 149 no e un astenuto). In prima serata il voto finale sul testo, pittosto diverso nei numeri: 267 sì, quasi 60 in meno, 24 astenuti di Mdp e 139 voti contrari. Uno rischia di aprire un caso: è quello del ministro per la Famiglia Enrico Costa, che al momento di schiacciare il pulsante si siede tra i banchi del gruppo alfaniano anziché in quelli del governo. E poi dichiara: «Una prescrizione del genere rende perpetuo il processo: è una riforma in cui c’è ben poco di liberale».

INTERCETTAZIONI, LE GAFFES DEL M5S

In mezzo ai due scrutini una discussione in due atti infarcita di iperboli e qualche verità. Si scopre che il moderatissimo Andrea Mazziotti sa cantarle ai cinquestelle: «Dite che l’eccessiva durata dei processi è irrilevante e che possono andare avanti per sempre, ma se serivirà a qualcuno dei vostri cambierete il regolamento in modo che della prescrizione possa avvalersi». Il presidente della prima commissione ricorda anche che «se alzi le pene per la corruzione non c’è bisogno poi di prevedere anche un aumento specifico dei termini in cui quel reato si estingue». L’altro ex montiano Lorenzo Dellai riconosce che «il carcere non farà cassetta ma per onestà è giusto dire che le norme inserite nella delega penitenziaria evitano agli istituti di scivolare in una situazione criminogena». Poi arriva la grillina Giulia Sarti e sembra di stare su scherzi a parte: attacca con un sobrio «codardi!», poi passa alle «porcate più eclatanti» e infila diverse gaffes. Legge il testo che devono averle preparato e dice più volte che i decreti delegati seguenti al ddl impediranno la pubblicazione delle intercettazioni «penalmente rilevanti». L’aggettivo giusto, e probabilmente stampato nel discorso, sarebbe «irrilevanti», ma lì per lì dev’essere sembrato persino alla deputata M5s che fosse assurdo criticare la secretazione di conversazioni funzionali solo a sputtanare, e deve aver pensato a un errore del ghost writer.

ORLANDO: AVOCAZIONE? NORMA GARANTISTA

Più circostanziate le critiche all’avocazione obbligatoria del procuratore generale, vero incubo dell’Anm. Ma qui è il guardasigilli Orlando a difendere il principio. «È una norma garantista, come l’estinzione dei reati mediante condotte riparatorie», dice a Radio Radicale. In effetti, come gli fa eco in Aula David Ermini, chi contesta l’obbligo di sbrigarsi imposto ai pm «vuole togliere al cittadino il diritto di sapere, dopo anni di indagini, che fine farà». A sua volta il ministro parla di «giornata positiva per la giustizia» e vede nel ddl da lui difeso con ostinazione «una risposta, in termini di efficienza, di tutela dei diritti e di garanzie, a tante persone che oggi ne sono prive». Compresi i carcerati, sottratti a una logica di «mera segregazione» e restituiti alla «rieducazione» che per Orlando vuol dire «superamento della recidiva». Non basta a Rita Bernardini: interpellata, la dirigente radicale conferma di «andare avanti con lo sciopero della fame: vorrei rassicurazioni su tempi e contenuti dei decreti attuativi della riforma penitenziaria» .

LEGGENDE VARIE SULLE NORME DEL DDL

Bernardini evoca un’incognita. La norma sul processo a distanza proposta da Nicola Gratteri è invece un dato certo e una «barbarie» per l’Unione Camere penali. Che attacca: «Il governo blinda una legge nonostante il parere contrario di magistrati e avvocati: siamo ancora in un Paese democratico? ». Quasi identica l’obiezione dell’Anm: il testo, secondo il sindacato dei giudici, «scontenta tutti». Vero, anche se attorno al maxi ddl fioriscono leggende. Come sulla norma che delega l’esecutivo a fissare i “costi standard” su server e assistenza tecnica per le intercettazioni: l’hanno rivoltata in un taglio di spesa. Su corruzione e induzione indebita, i termini di prescrizione vengono ampliati, in caso di “fatti interruttivi”, della metà del massimo edittale anziché di un quarto. Vuol dire che un giudizio per corruzione propria potrà restare in piedi anche 18 anni. Non c’è alcun superamento dell’ergastolo ostativo per i mafiosi, esplicitamente esclusi dalla «revisione» della disciplina sui benefici. Fino all’asserito abominio del divieto di usare i trojan in casa per i presunti corrotti: è lo stesso limite già previsto, per tutte le captazioni investigative, all’articolo 266 del Codice di rito. Che nessuno, neppure i grillini, si era mai sognato di bollare come un favore ai corrotti.