L’avvocatura dovrebbe avere una funzione cruciale nella soluzione dei problemi di convivenza mediante il diritto. Gli avvocati cioè, se formati alla traduzione interculturale, potrebbero aiutare gli altri a iscrivere i loro significati nel tessuto normativo. Il Consiglio nazionale forense ha intercettato questa urgente necessità. Il convegno - che si terrà a Bologna il 20 giugno, inserito tra gli eventi G7 sotto la presidenza italiana, organizzato dal Miur e coordinato dal Cnf, dal titolo “Diritto e convivenza interculturale” - è il primo atto di una pratica innovativa. Il Cnf fa l’apripista per realizzare un diritto “interculturale”. Cioè...

Iniziamo dai mantra mediatici. “Chi si reca in un Paese straniero deve rispettarne le leggi”, anzi “le regole”. Si tratta di una massima condivisibile, anche perché a non rispettare quelle regole, di solito, ci si imbatte in conseguenze poco piacevoli.

Cosa significa, però, rispettare le leggi? È sufficiente leggere i testi di quelle leggi?

Certamente no. Ed è così semplicemente perché le leggi pretendono molto più di quel che dicono.

Due esempi banali potranno servire a fare chiarezza sulla confusione che può affliggere una persona straniera che giunge in un Paese ospite. Chi di noi sospetterebbe che il furto ( articolo 624 del codice penale) non sia universalmente comprensibile e universalmente compreso? Quasi nessuno.

Eppure, c’è da essere certi che gli stessi nessuno non sarebbero capaci di spiegare come e quando si sottrae qualcosa a qualcun altro. La sottrazione presuppone la detenzione. Così sancisce il codice penale italiano. Del resto, se nessuno detiene una cosa, come sarebbe possibile accusare qualcun altro di avergliela sottratta? Ecco, però, il problema: quand’è che qualcuno detiene una cosa mobile? Quando è a sua portata di mano? E quale deve essere la distanza perché quella cosa sia considerata a portata di mano?

Chi saprebbe spiegare il perché di queste differenze a uno straniero?

Ancora, durante le trattative per la conclusione di un contratto bisogna comportarsi secondo buona fede ( art. 1337 del codice civile italiano). Cosa significa comportarsi secondo buona fede? Cosa si può dire e cosa non si può dire durante le trattative? Cosa si può tacere?

Cosa si deve dire per non indurre l’altro contraente in errore? E quando questo errore può essere invocato per sottrarsi agli obblighi derivanti dal contratto? Come accertare tutto questo se il contraente è uno straniero? E quand’è che il suo tacere o il suo dire, se non calibrati culturalmente, possono far credere che egli tenti di ingannare, di raggirare l’altro contraente? Quindi di commettere una truffa?

Si tratta di esempi banali ma se ne potrebbero fare senza fine.

Il problema è la differenza culturale. Le leggi chiedono di sapere anche quel che non esplicitano. Nel furto presumono che tutti conoscano la grammatica dello spazio che ritma i rapporti tra cose e persone. Nelle trattative contrattuali chiedono che ciascuno abbia una teoria della mente dell’altro in grado di fargli capire cosa dovergli dire per informarlo correttamente su quel che sta decidendo di fare, sugli impegni che sta assumendo.

Queste, però, sono cose che non si possono non sapere potrebbe affermare qualcuno.

Quindi lo sbaglio, l’errore, non è possibile non commetterlo apposta. Tutto quel sapere è appunto cultura e le leggi si limitano a presupporla. Essa è costituita dall’insieme degli schemi che gli esseri umani utilizzano per muoversi nel mondo e per costruire insieme agli altri l’ambiente dove convivere ( più o meno pacificamente). La storia, la geografia, le tradizioni, l’esperienza vissuta, fanno sì che quegli schemi siano differenti tra le comunità umane.

Se è così, come è possibile, allora, pretendere che altri abbiano i nostri stessi schemi di comprensione del mondo?

Come si può acquisirli se non vivendo più o meno a lungo in un determinato contesto sociale? Come possono essere appresi se non traducendoli?

Cose e azioni non parlano da se stesse, né di se stesse. Ogni parola, ogni gesto, può avere significati differenti secondo le rappresentazioni mentali delle persone che li pongono in essere. E non è detto che significati diversi da quelli della cultura autoctona siano necessariamente non meritevoli di tutela in base agli stessi valori inclusi nell’etica e nelle leggi del paese dove chi è altro sopraggiunge o si trova a vivere. Accanto al contratto sociale sui valori, esiste in ogni cultura, in ogni comunità, un contratto sociale sui significati di cose, gesti, eventi. È un contratto sociale tacito, che si rinnova e non può non rinnovarsi costantemente. Ed è ancora da rinnovare, necessariamente, quando entrano a far parte di una comunità persone che leggono il mondo servendosi di schemi di giudizio differenti.

Molti contrasti etichettati come conflitti tra valori sono o nascondono invece discrepanze cognitive, di significato. Prima di scontrarsi, insomma, bisognerebbe tradurre. Prima di giudicare ci sarebbe da chiedersi se c’è qualcos’altro da capire, qualcosa che sta oltre quel che sembra evidente.

Anche perché senza tradurre non è possibile comprendere come applicare le leggi e persino quali leggi scegliere.

Gli avvocati sanno bene che il mondo non ha etichette.

Nessun cliente si reca da loro con una storia che parli da sé e da sé dica quali sono le leggi da applicare per regolare la condotta dei suoi attori.

Ordinariamente gli avvocati traducono il linguaggio ( anche il linguaggio giuridico folk) dei clienti in termini tecnici. Così, attraverso un gioco di domande e risposte, individuano la cura giusta per il loro assistito o se non altro la più appropriata a difenderne ragioni e interessi per mezzo delle leggi.

Senonché fare tutto questo con gli stranieri è difficile e persino impossibile se non si possiede un vocabolario bi- lingue. Capire cosa lo straniero ha fatto o vuole fare può essere molto difficile, talora impossibile, senza l’aiuto di qualcuno che getti luce sull’universo di significati che quella persona articola del tutto inconsapevolmente. Il problema è che l’avvocato sarà culturalmente indotto a pensare che lui pensi come un italiano e il cliente straniero penserà che l’avvocato italiano non può non capire quel che lui intende.

Così, nel fuoco di queste presunzioni incrociate ed errate, la morsa della legge e delle sue qualificazioni rischierà di chiudersi sul malcapitato straniero innescata da un incolpevole reato di ignoranza reciproca. Una situazione, questa, che paradossalmente può essere ulteriormente aggravata dalla circostanza che lo straniero parli ( anche bene) l’italiano. La comunanza di lingua può nascondere il fatto che egli potrà anche parlare italiano, ma non penserà italiano. Il suo apparato di concetti, le conseguenze che attribuirà alle sue parole o ai suoi gesti, saranno comunque diverse da quelle che vi collegherà l’italiano medio, compreso l’avvocato.

Ed ecco i risultati ( che ben conosce chiunque abbia esperienza di rapporti legali con gli stranieri). Si provi a chiedere a un gruppo di stranieri immigrati in Italia o in qualsiasi altro paese se, per rispettare la legge nel loro Paese, essi hanno bisogno di conoscerla, di leggerla, di farsela dire. La risposta sarà un sonoro “no”. E la legge italiana? La risposta sarà di segno diametralmente opposto. Anche se - come già detto - la conoscenza dei testi normativi, da sola, non basterebbe affatto ad assicurare la comprensione di quanto essi prescrivono e pretendono di far osservare. Così, chiedendo agli stessi stranieri se per risolvere le proprie controversie interne andrebbero da un giudice, si otterrebbe un’altra risposta in larghissima parte negativa, più o meno di questo tenore: «Noi non andiamo perché tanto il giudice non ci capisce».

Quando si parla di cultura o di diritti culturali si pensa sempre a veli, turbanti, pratiche religiose più o meno esotiche, poligamia, e così via. La differenza culturale riguarda anche questo, indubbiamente. Il problema delle relazioni interculturali, di cui dovrebbe occuparsi un diritto interculturale pensato e amministrato per tutti, ha a che fare, però, con l’oceano delle pratiche sociali. Si tratta di rapporti di lavoro, acquisti, locazioni, attività commerciali, eredità, pratiche educative, gestione della proprietà. L’uso interculturale del diritto si differenzia dalle pratiche multiculturaliste rivolte a tutelare e a mantenere intatta l’identità culturale, così come dall’assimilazionismo che postula un’impossibile trasfigurazione dell’altro nel cliché dell’autoctono medio. Da un punto di vista giuridico, il problema principale è che davanti alla legge gli stranieri restano spesso ammutoliti. Essi non riescono a entrare dentro la legge, a iscrivere quel che pensano e desiderano dentro la rete dei significati normativi. Ed è così appunto perché non sono assistiti da traduttori interculturali efficaci. Tuttavia, quando milioni di persone, incluse in una popolazione, pensano che “tanto i giudici non li capiscono”, allora c’è un’urgenza sociale, un enorme problema di riposizionamento nel nuovo contesto di vita, un’esperienza di tra- duzione che è stata solo spaziale ( l’ingresso nel territorio) ma ha lasciato indietro, altrove, il senso, la mente dell’immigrato.

L’avvocatura può e dovrebbe avere una funzione sociale cruciale nella soluzione di questi problemi di convivenza mediante il diritto. Gli avvocati, se formati alla traduzione interculturale o coadiuvati da antropologi, potrebbero aiutare gli altri - e per altri intendo tanto i rifugiati bisognosi di tutto, quanto gli imprenditori stranieri che avessero intenzione di investire in Italia a iscrivere i loro significati nel tessuto normativo. In questo modo, garantirebbero effettività, l’effettività che solo il diritto può assicurare, alla realizzazione degli interessi di queste persone. Molto e in modo meritorio fanno già tutti i professionisti impegnati con il diritto delle migrazioni.

L’ingresso nel territorio è però solo il primo passo, il primo capitolo di una vicenda assai più complessa e variegata.

Subito dopo si schiude il palcoscenico dei problemi di convivenza. Da questo punto di vista, la capacità di riconoscimento e di inclusione interculturale dei diritti statali è assai maggiore di quanto si sospetti. Quel che manca, ancora, sono quadri professionali formati a un uso interculturale del diritto statale. Il Consiglio Nazionale Forense ha intercettato questa urgente necessità. Il Convegno che si terrà a Bologna il 20 giugno 2017, inserito tra gli eventi G7 sotto la Presidenza italiana, organizzato dal MIUR e coordinato dal CNF ( http: // www.

consiglionazionaleforense.

it/ web/ cnf/ g7), dal titolo “Diritto e convivenza interculturale”, è da salutare come l’atto introduttivo di una pratica innovativa quanto indispensabile. Ed è nello stesso segno che si sviluppa l’impegno dell’avvocatura nazionale e locale per la formazione giuridica nelle scuole, nel quadro della c. d.

ASL ( alternanza scuola lavoro), a sua volta comprensiva di un’attenzione specifica all’educazione giuridica interculturale. Se coadiuvata dal supporto istituzionale nello sviluppo di corsi d’insegnamento e corsi di laurea universitari, così come da corsi di formazione per i professionisti, l’attività da apripista del Cnf potrebbe progressivamente trasformare gli studi legali in avamposti cosmopolitici, cioè in attori di un cosmopolitismo alimentato dal basso e focalizzato sui bisogni avvertiti dalle persone nel condurre la più difficile delle imprese: la gestione del quotidiano.

Le barriere culturali che ostacolano le relazioni intersoggettive potrebbero essere considerevolmente ridotte da un diffuso uso interculturale del diritto. Un diritto che agirebbe come strumento di potenziamento delle possibilità individuali anziché come un puro mezzo di costrizione e imposizione di regole poste da altri. Se ciò accadesse, probabilmente anche le barriere geografiche potrebbero cessare di innalzarsi, trasformandosi in muraglie erette a sancire l’impossibilità di superare i conflitti. Ed è così perché in un mondo segnato irreversibilmente dalla mobilità globale di informazioni, merci e persone, tra frontiere interpersonali e frontiere territoriali esiste un rapporto di proporzionalità diretta.

Un’enorme quantità di clienti, potenziali e in atto, necessita di un’assistenza legale interculturale da parte da parte degli avvocati.

Un’assistenza che andrebbe declinata potenziando la consulenza preventiva, ripensando dunque la funzione sociale degli studi legali come crocevia di formazione/ informazione giuridica. Dislocati sul territorio nazionale, la loro azione capillare darebbe bita a un dispositivo sociale in grado di evitare di trasformare l’errore, la non conoscenza di quel che le leggi non dicono, in conflitti, illeciti e ( in alcuni casi) vicende giudiziarie. D’altro canto, per quanto attenti alle ragioni dell’alterità culturale, i giudici sono destinati a intervenire sempre troppo tardi, e cioè quando le persone hanno già agito, e il fatto non può essere rimosso. Al contrario, la strada dell’assistenza preventiva, se adeguatamente diffusa anche per mezzo della disseminazione informativa consentita dalla rete, potrebbe indurre negoziazioni interculturali. Se usato con competenza e sensibilità culturale, l’ordinamento è in grado di modellarsi sulle esigenze delle persone. Come si accennava, il mondo non ha etichette e non esistono soluzioni giuridiche preconfezionate rispetto al caso singolo. Al tempo stesso, la possibilità di ottenere risposte flessibili dall’ordinamento, la prospettiva di vedere tutelate le proprie esigenze, tenderebbero a indurre rimodellamenti culturali negli stessi stranieri. L’effetto finale, in molti casi, sarebbe che tanti possibili conflitti, piuttosto che risolversi, finirebbero per dissolversi. Anche se non tutte le divergenze culturali potranno essere composte, del resto come quelle interpersonali, tuttavia moltissimi problemi potrebbero essere superati o evitati. Attraverso l’assistenza legale, insomma, chi è altro potrebbe trovare il canale per entrare dentro la legge. Una legge che riconosce e traduce. Una legge di tutti e per tutti.

* PROFESSORE DI DIRITTO INTERCULTURALE ALL’UNIVERSITÀ DI PARMA