«Riconoscere il reato di tortura è una condizione necessaria ma non sufficiente, perché purtroppo anche dove la tortura è riconosciuta come reato si continua a praticarla». La filosofa e scrittrice Donatella Di Cesare, che si è espressa diffusamente sull'argomento nel saggio Tortura (Bollati Boringhieri, 2016) – oltre che in un intervento contenuto nel volume antologico Tortura fuorilegge (Forum Editrice, 2016) –, spiega quanto sia semplicistico e fuorviante indugiare in facili accomodamenti legislativi che suppliscono a un vuoto di maturità civile e di discernimento culturale. Di Cesare, l'Italia ha dovuto ammettere le proprie responsabilità e patteggiare a Strasburgo per scongiurare una condanna in relazione alle torture inflitte ai manifestanti del Social Forum nella caserma di Bolzaneto il 21 e il 22 luglio del 2001. Ritiene che questo sia un passo in avanti nella prospettiva dell'adozione di una legge contro il reato di tortura? Me lo auguro. Il ministro Orlando, quando c'è stata la presentazione del mio libro alla Camera, ha rilasciato una dichiarazione in cui si impegnava a fare di tutto affinché anche l'Italia riconoscesse finalmente il reato di tortura. Credo che il problema riguardi soprattutto il testo della legge, che finora ha suscitato non poche perplessità. Crede che l'elezione di Trump possa rappresentare, a livello internazionale, un passo indietro in tal senso? Anche durante l'ultimo periodo dell'amministrazione Obama una parte dell'opinione pubblica era favorevole al ricorso della tortura in casi eccezionali. Non credo che sia tanto la questione Trump il fatto centrale quanto l'idea che emerge dal dibattito pubblico, secondo cui ricorrere alla tortura sia la via più semplice per contrastare il terrorismo. Ritengo che uno dei grandissimi limiti del dibattito internazionale – in particolar modo in Italia – sia la mancanza di una riflessione seria circa l'essenza della tortura. Per “democratizzazione della tortura” intendo che essa, nonostante sia illegale, venga praticata anche nelle democrazie: si tratta infatti di una violenza sistematica, che abbisogna di una regia politica. Cosa pensa circa la presunta efficacia della tortura e della tematica ticking bomb presa in considerazione, fra gli altri, anche dal filosofo Michael Walzer? Penso che la tortura non abbia alcuna efficacia, e ciò è dimostrato anche dall'esperienza. All'indomani dell'11 settembre in America si è sviluppato un dibattito dove anche figure che passano come pensatori liberal al livello di Walzer si sono espressi a favore di un ricorso – seppure eccezionale – della pratica della tortura. Sono posizioni pericolosissime. La democrazia è una forma politica fragile e per questo va difesa: anche un millimetro di cedimento vuol dire aprire una falla enorme. Tesi come quella della bomba ad orologeria non sono basate sui fatti né sull'esperienza: sono pura fiction, strumenti di propaganda atti a convincere l'opinione pubblica dell'utilità della tortura. Non dobbiamo mai dimenticare che gli Stati, specie quelli americani, negano l'uso della tortura mentre ammettono la pena di morte; c'è una vergogna di fondo ad ammettere quello che è a tutti gli effetti un crimine, che presuppone un'auto-negazione dello Stato: se noi affidiamo allo Stato il monopolio della forza, lo Stato che tortura diventa illegittimo. Quanto è labile, in uno Stato di diritto, il discrimine che separa l'esercizio equilibrato del potere da un atto violento, autoritario e spesso arbitrario? È sempre molto labile, ma la tortura è la tortura: fare uso di violenza all'interno di un interrogatorio vuol dire appunto fare uso di violenza. I margini sono dettati anche dalla legge. Per quanto riguarda il consenso alla pratica della tortura, quanto ritiene che abbia influito anche la narrazione che ne dà certa informazione e certo cinema? Nel mio testo ricostruisco l'intero dibattito che si è svolto negli Stati Uniti, come anche il ruolo della CIA e dell'intelligence – fondamentale nel passaggio a quella che viene chiamata tortura bianca, ovvero un tipo di tortura che non lascia tracce e quindi non è facilmente dimostrabile. Hanno poi grande peso, oltre ai film, anche le serie televisive: mi riferisco, ad esempio, al personaggio di Jack Bauer della serie 24, e, più in generale, a tutte queste serie poliziesche che ci mostrano un mondo nettamente diviso tra criminali e polizia, dove il poliziotto diventa una figura che salva l'umanità e sconfigge il terrorista e al quale noi spettatori vorremmo quindi affidare pieni poteri. In queste serie televisive, soprattutto quelle più violente, la tortura viene fatta passare come un mezzo in fondo lecito per sconfiggere il terrore. Ciò è gravissimo in quanto ha avuto, non tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, un ruolo decisivo nell'orientamento dell'opinione pubblica. È trascorso più di anno dall'omicidio di Giulio Regeni. Pensa che a un anno di distanza l'Italia abbia fatto abbastanza per riuscire ad acclarare piene responsabilità al riguardo? La verità, in gran parte, è sotto gli occhi di tutti: si è trattato di un omicidio e di una tortura perpetrata dai servizi segreti. Parliamo di un Paese, l'Egitto, dove ci sono casi di scomparsa quasi quotidiani. Non vorrei che tale interesse nasconda un'ipocrisia di fondo, nel senso che si prende posizione per qualcosa che è accaduto fuori dall'Italia per poi fare poco in relazione a quanto avviene all'interno dei nostri confini nazionali. Quali sono le nuove forme e spazi di diffusione della tortura oggi? La tortura è un esercizio di potere che avviene in tutti quegli spazi oscuri dove il più debole è alla mercé del più forte. In Italia abbiamo avuto il caso Uva, il caso Cucchi, ecc... Esistono, tuttavia, altre vicende che spesso passano sotto silenzio e che si consumano in luoghi quali case di riposo per anziani o orfanotrofi, istituzioni che a mio avviso dovrebbero essere oggetto di monitoraggio costante. Perché, a suo avviso, in Italia manca tuttora una legge contro il reato di tortura? È paradossale che l'Italia, la patria di Beccaria – il primo intellettuale a puntare l'indice contro la tortura – non abbia ancora introdotto questo reato. Penso vi siano vari motivi che concorrano a questa mancanza. Vi è sicuramente la tendenza a lasciare le cose indeterminate proprio perché con uno spazio di indeterminatezza il potere si può esercitare con maggiore facilità. Un'altra serie di ragioni riguarda invece il passato più recente dell'Italia – ovvero tutto ciò che è avvenuto negli anni '70 –, un passato su cui non c'è stata a tutt'oggi una dovuta e approfondita riflessione critica.