La grande storia e la vita delle persone comuni trovano un’armonica sintesi nello spettacolo teatrale Letizia va alla guerra, la sposa e la puttana di Agnese Fallongo, in scena insieme a Tiziano Caputo, per la regia di Adriano Evangelisti.

Sotto il nome di Letizia, il dramma lega le vicende di due ragazze del popolo. La prima, una siciliana, racconta il dolore di tante donne costrette a veder partire i loro giovani mariti per il fronte friulano durante la Grande Guerra. Le trincee ingoiano anche il suo Michele, ragazzo semplice e innamoratissimo. Le lettere della moglie non raggiungono mai il destinatario, così Letizia decide di andare a cercarlo. Si unisce alle portatrici carniche: la schiena curva sotto il peso di una gerla, dispensa rifornimenti tra le linee italiane, con la speranza di rivedere il marito. Ma la guerra non risparmia nulla, neanche all’amore.

La seconda storia è ambientata a Roma, dove Lina, in arte Letizia, a partire dagli anni della Seconda Guerra mondiale, lavora come prostituta nella “casa di tolleranza” della zia Gemma. Anche in questo caso la vicenda è un ricordo della protagonista, qui affiancata dal “biondino”, il ragazzo che si è innamorato di lei e vuole sposarla. Il giovane cliente rievoca l’amore per la sua Lina quando ormai è il 1958, anno in cui, con 115 No e 385 sì, entra in vigore la legge Merlin e «allo scoccare della mezzanotte tra il 19 e il 20 settembre, circa 3000 cenerentole abbandonano i loro 560 palazzi del piacere in tutta Italia, lasciando migliaia di “principi” a bocca asciutta». Ma questa legge non ha fatto in tempo a salvare Letizia, che è morta ben prima, di sifilide. Sul finale il “biondino”, all’inizio critico verso l’iniziativa della senatrice, ha un dubbio: «Forse ha fatto bene la Signora Merlin».

L’allestimento gode di una regia ferma e millimetrica, che dà un respiro profondo allo spettacolo. I sentimenti della quotidianità, resa precaria dalla guerra, la spinta vitale del desiderio e dell’amore, capaci di determinare le scelte dei protagonisti, si insinuano nella sensibilità dello spettatore. La franca semplicità dei personaggi, confrontata alla complessità della vita, lo investono con una simbologia scarna ed efficace, che sa raccontare con lievità il dolore della separazione e della morte, gli assalti dell’innamoramento, le piccole meccaniche familiari. Alternando con sapienza comico, tragico, farsesco, dosando a perfezione grammelot, avanspettacolo, canzoni popolari, sottili richiami alla commedia dell’arte e persino al cuntu siciliano, il testo della Fallongo e la regia animano sulla scena la dolceamara giostra dell’esistenza.

I due interpreti, che sono anche eccellenti cantanti, variano senza sosta i registri, entrano ed escono da diversi personaggi, caratterizzano con cesellature i ruoli principali, caricano gli altri senza perdere il tratto dell’umanità. Tiziano Caputo, che ha curato anche l’arrangiamento musicale, ha il piglio di un Rugantino ma la leggerezza del sogno, corteggia le orecchie dello spettatore con la sua chitarra, comunica sentimenti per sottrazione, con minimi gesti del corpo: un sopracciglio che si alza, uno sguardo che cede alla timidezza. Agnese Fallongo, nel ruolo della sposa, in abito nuziale, esprime il candore e il coraggio di una ragazza del popolo, che per la gioia pura del suo amore affronta la complicata brutalità del mondo. Mentre nel ruolo di Lina- Letizia – costretta giovanissima alla prostituzione dalla zia Gemma, che vende la verginità della nipote a un soldato nazista per 15 lire e 65 centesimi – l’attrice passa da un tono grottesco, in cui spesso riconosciamo modelli come la Vitti, o ancor più Mariangela Melato e certa Magnani, a un colore drammatico, che ci ricorda la Loren della Ciociara.

Le tematiche avvicinano la scrittura della Fal- longo a un neorealismo che, proprio come in Moravia, non disdegna il simbolo. Ma l’autrice, che dà prova di un’espressività drammaturgica naturale quanto potente, attenua la durezza della verità, richiamandosi, anche, come per certi versi aveva fatto Brecht, al Teatro No giapponese, dove dialogano vivi e defunti. Infatti le sue due Letizie sono morte, ma compaiono sulla scena e raccontano il passato, lo rievocano, lo rivivono.

Il testo è frutto di accurate ricerche storiche e musicali: la prima parte è aperta e chiusa, in Ringkomposition si direbbe, da una canzone del repertorio di Rosa Balestrieri, mentre il secondo racconto si snoda anche attraverso i canti di Gabriella Ferri, di Anna Melato.

Lo spettacolo – che ha già ottenuto riconoscimenti, tra cui quello delle rassegne Frammenti al Femminile e Donne di Guerra – ha avuto un’ottima accoglienza al Teatro Lo Spazio e al Teatrocittà di Roma, tanto che il direttore artistico del Quirino, Geppy Gleijeses, ha voluto dedicargli due serate speciali. Per l’occasione il regista Evangelisti ha deciso di girare completamente la prospettiva, ospitando sul palco gli spettatori, mentre gli attori reciteranno in una parte della platea. Questo a sottolineare ancor più il temperamento del testo, capace di rappresentare con gradazioni ora comiche, ora commoventi, la realtà della gente comune, la fatica del popolo che vive e che muore, che lancia il cuore oltre gli ostacoli e la violenza della guerra.