“Su questa vetta Fausto Coppi esaltò il ciclismo”. Sono innumerevoli le cime che hanno visto arrivare il Campionissimo “uomo solo al comando”, ma quella scritta ha un sapore particolare. Non è sul Mortirolo, sullo Stelvio o sul Gavia. È in costiera amalfitana, sulla terrazza di Bomerano, nel comune di Agerola. Lì, a strapiombo sul mare, c’è il sentiero degli dei che incoronò Fausto Coppi nell’Olimpo. Un percorso di straordinaria bellezza, con un panorama che fa viaggiare lo sguardo da Praiano fino a Punta Campanella, con l’arcipelago a forma di delfino di Li Galli, tra Positano e Capri, buen retiro di Eduardo e Rudolf Nureyev. Era il 3 aprile del 1955 e si correva il giro della Campania organizzato da Gino Palumbo, all’epoca capo dello sport del quotidiano il Mattino prima di trasferirsi a Milano per dirigere la Gazzetta dello Sport.

Tra Fausto Coppi e Gino Palumbo c’era un legame molto stretto. Fu proprio il giornalista a rimediare una biciclietta al campione, al ritorno dalla guerra in Africa, quando sbarcò a Napoli. Si incontrarono e Coppi, che aveva già vinto il suo primo giro nel 1940, gli chiese una mano. Palumbo lanciò un appello dalle colonne del giornale La Voce: «Date una bicicletta a Fausto Coppi». Ne arrivarono tre e Coppi scelse una Legnano da corsa. Era di un falegname di Somma Vesuviana, Angelo D’Avino, appassionato di ciclismo che fu felice di regalarglierla. Era la fine della guerra e una bicicletta all’epoca valeva eccome, come raccontò Vittorio De Sica in Ladri di biciclette.

D’Avino non ci pensò un attimo, non solo regalò la sua bicicletta a Coppi, ma lo ospitò per un po’.

In quel pomeriggio del ‘ 55 il belvedere di Bomerano era pieno di tifosi che guardavano la strada sottostante. I ciclisti apparivano e scomparivano nelle pieghe della montagna che precipita a picco verso il mare. Si avvicinarono e si iniziarono a distinguere le sagome e i colori. Dopo una curva apparve solitaria una maglia biancoceleste: “è isso, è isso' ( è lui, è lui) gridava la folla. Coppi distaccò gli avversari e tra un pubblico che impazziva nel vederlo salire agile e sicuro, con la sua mitica pedalata leggera, imboccò il tunnel al culmine della salita con poco più di un minuto di vantaggio volando verso l’arrivo di Napoli, con quasi cinque minuti di vantaggio su Fiorenzo Magni. Ancora una volta la definizione che lo storico radiocronista Mario Ferretti aveva coniato per lui si ripeteva: “Un uomo solo è al comando della corsa, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi”.

Come scrisse di lui Gianni Brera “sembra un’invenzione della natura per completare il modestissimo estro meccanico della bicicletta. Coppi in azione non è più un uomo, del quale trascende sempre i limiti comuni. Coppi inarcato sul manubrio è un congegno superiore, una macchina di carne e ossa che stentiamo a riconoscerci simile. Allora persino i suoi capelli che il vento relativo scompiglia, paiono esservi per un fine preciso: indicare la folle incontenibile vibrazione del moto”. L’edizione 2017 del Giro d’Italia, la numero 100, ricorderà Coppi in modo speciale. La tredicesima tappa si concluderà a Tortona, città dove il Campionissimo è morto, mentre il giorno dopo la carovana rosa ripartirà, per la prima volta da Castellania, dove Coppi era nato nel 1919.

La sua passione per la bicicletta nasce, è proprio il caso di dirlo, per mestiere. Coppi, nato il 15 settembre 1919, infatti non proveniva certo da una famiglia agiata. I suoi genitori erano contadini che a ma- lapena riuscivano a mantenersi. Fausto, che di coltivare la terra non aveva assolutamente voglia, a 13 anni decise di andare a lavorare come garzone in una salumeria di Novi Ligure. È la svolta della sua vita, perché proprio grazie all’amore appena sbocciato per la bicicletta ( con la quale consegnava la merce) viene segnalato a Biagio Cavanna, gestore di una scuola di ciclismo e massaggiatore di campioni come Guerra e Girardengo, che gli insegna tutto ciò che sa di questo sport. Cavanna era cieco, ma sente subito che sotto le sue mani c’è il fisico di un campione. Il resto, il talento, la ' fame', la passione, lo mette Coppi. Che in pochi anni diventa un asso del ciclismo non solo italiano, ma mondiale.

Nel 1940 debutta al Giro d’Italia e dimostra a tutti il suo valore, vincendolo a sorpresa. Partito come gregario di Gino Bartali, dopo una caduta del capitano si ritrova in maglia rosa e ci arriva a Milano. Due anni dopo stabilisce il nuovo record dell’ora. Finita la Guerra, un’Italia sempre più appassionata alle due ruote segue con grande attenzione le sue gesta. Nel 1946 domina la Milano- Sanremo, al Giro d’Italia, nonostante una lesione a una costola, arriva secondo dietro a Gino Bartali. Passato alla Bianchi, nel 1947 vince il suo secondo Giro, dominando nelle tappe alpine, che sarà soltanto un trampolino di lancio verso le fasi più intense della sua carriera ciclistica. La sfida tra Coppi e Bartali infiamma i tifosi che si dividono tra coppiani e bartaliani e si esaltano per i due campioni che si danno battaglia a ogni gara.

Coppi diventa uno degli sportivi più pagati del momento. Del resto è un perfezionista che non lascia nulla al caso, la sua preparazione fisica è impeccabile. È un corridore completo, instancabile passista ma anche eccezionale scalatore, grazie al suo fisico, magari ad occhio poco atletico, ma praticamente perfetto ( meno di 40 pulsazioni al minuto e una capacità polmonare di 7 litri, contro i quattro normali). Aveva solo una fragilità ossea che gli procurò ben 11 fratture durante la sua carriera.

Non è sorprendente dunque il fatto che il suo palmarés continui a riempirsi di successi: nel 1949 si aggiudica la Milano- Sanremo, vince il Giro d’Italia e nella Cuneo- Pinerolo realizza quella che è stata definita la più grande impresa ciclistica di tutti i tempi. Dopo una fuga di 192 chilometri e dopo aver scalato cinque colli alpini si presenta al traguardo con dodici minuti di vantaggio sul secondo: il rivale di sempre Gino Bartali. Quell’anno riesce a firmare un’impresa fino ad allora mai riuscita a un ciclista: aggiudicarsi nello stesso anno sia il Giro d’Italia che il Tour de France ( dopo di lui solo Merckx, Hinault, Anquetil, Indurain, Roche e Pantani). Prima sui Pirenei e poi sulle Alpi, Coppi recupera ben 19 minuti di svantaggio dal primo. Bartali è maglia gialla, ma nella tappa che arriva ad Aosta cade e a quel punto l’Airone, che era in fuga con lui, vola verso la vittoria e agli Champs- Élysées è primo lasciando al rivale di sempre il secondo gradino del podio. Diventa così il nuovo idolo dei francesi.

I due anni successivi sono sfortunati per il campionissimo. Cade ed è costretto a ritirarsi dal giro. Ritorna in sella e accanto a Fausto c’è il fratello minore Serse, suo fedele gregario fino a quel tragico 1951 che lo vede morire dopo una caduta al termine del giro del Piemonte in vista del traguardo. Per Fausto è un momento durissimo: pensa di abbandonare il ciclismo, ma l’amore per la bicicletta vince sul dolore.

Nel 1952 bissa l’impresa al Giro e al Tour. È l’anno che vede Coppi e Bartali siglare il famoso “patto di Chiavari”. I due con la maglia della nazionale e sotto la guida di Alfredo Binda collaborano, si aspettano e si incoraggiano a vicenda, vincendo tappe su tappe. Quel Tour ci riporta alla mente la sua istantanea più famosa, lo scatto che ritrae il passaggio di borraccia dalle sue mani a quelle del suo antagonista. Ma chi l’ha passata a chi? L’anno successivo conquista il suo quinto Giro d’Italia, battendo il nuovo rivale Hugo Koblet, e diventa campione del mondo su strada, l’unica corsa su strada che non era ancora riuscito a vincere.

La vita privata di Coppi ha un’impennata nel 1953. Si innamora di Giulia Occhini, incontrata nel 1948 quando vinse le Tre Valli Varesine e lei, si avvicina al campione per un autografo, per conto del marito suo grande tifoso. Tra Coppi e la Occhini inizia un rapporto epistolare che durerà per anni. Nel 1953 inizia la loro relazione. I due sono sposati, ma il loro amore rompe tutti gli argini e la relazione diventa pubblica l’anno successivo, quando vanno a vivere insieme a Novi Ligure. Nell’Italia dell’epoca la cosa fa scandalo e l’appellativo di ' dama bianca' per Giulia Occhini, coniato dal giornalista Pierre Chany per via del colore del montgomery indossato dalla donna all’arrivo di Saint Moritz nel giro d’Italia del 1954, diventa sinonimo di fedifraga. Da semidio idolatrato dalle folle, Coppi conosce la contestazione dei suoi tifosi. E anche il Papa di allora, Pio XII, condanna la loro relazione. La Occhini viene denunciata dal marito per adulterio. Arrestata, viene poi spedita ad Ancona in attesa del processo. A Coppi viene ritirato il passaporto, un danno notevole per lui che era spesso all’estero per le gare. Il processo che si svolge nel marzo del 1955, si conclude con una condanna per entrambi. Al ciclista vengono inflitti due mesi di carcere per abbandono del tetto coniugale ( viveva con la moglie Bruna Ciampolini e la figlia Marina, nata nel 1947), la Occhini viene condannata a tre anni ma la pena in seguito verrà sospesa. La coppia decide così di trasferirsi all’estero. Si sposano in Messico, un matrimonio non riconosciuto in Italia, e nel maggio del 1955, a Buenos Aires nasce il figlio Angelo Fausto.

È un momento felice della vita di Fausto Coppi, ma anche l’inizio di un lento e progressivo declino, accompagnato dal rammarico di non aver potuto ottenere di più sia per la sospensione delle corse in occasione della Seconda Guerra Mondiale, ma anche per i tanti infortuni che lo hanno frenato. Aveva deciso di ritirarsi nel 1960, dopo aver accettato l’ultima sfida della sua carriera, correre per la San Pellegrino Sport, una formazione appena nata e diretta proprio dall’amico- rivale Bartali. Oggi forse sarebbe un grande progetto di marketing. A quel tempo, però, fu un progetto che non andò mai in porto.

Nel mese di dicembre del 1959 Coppi decide infatti di partecipare ad un Criterium in Africa, a Ouagadougou, città dell’attuale Burkina Faso. Quella stessa Africa nella quale era stato fatto prigioniero ai tempi dalla guerra, visto che nel ‘ 43 era stato catturato dagli inglesi a Capo Bon e rinchiuso vicino Algeri, a Megez El Bab.

Quella di Ouagadougou è la corsa che gli è costata la vita, perché è proprio lì che Coppi, dopo aver partecipato a delle battute di caccia ( era molto appassionato) contrae la malaria. Al campione tocca in sorte la forma più violenta della patologia, quella generata dal plasmodium falciparum rilevato nel suo sangue e in quello del francese Geminiani, anche lui colpito dalla malattia nella stessa occasione. Ma mentre il corridore transalpino riuscì a salvarsi grazie all’intervento tempestivo dei medici, per Coppi non ci fu niente da fare. Morì a soli quarant’anni il 2 gennaio del 1960. Ai suoi funerali, due giorni dopo, parteciparono a Castellania oltre cinquantamila persone. Giulia Occhini, dopo la morte di Fausto, proseguirà la sua vita lontana dai riflettori. Ma il destino ha scritto per lei un’altra tragica pagina: il 3 agosto del 1991, coinvolta in un incidente stradale proprio davanti a Villa Coppi, finisce in coma e ci rimane per quasi un anno e mezzo. Muore a 70 anni, il 6 gennaio 1993. Il suo cantore Orio Vergani scrisse: «L’Airone ha chiuso le ali».

Questo era Coppi, un angelo, un airone, un eroe omerico con gli dei protettori e nemici. Diventato immortale proprio per essere stato invincibile sui pedali, ma caduto spesso in disgrazia. La sua morte prematura lo ha consacrato per sempre come un mito.