Il 25 aprile, a Roma, ho visto la sindaca Virginia Raggi a Porta San Paolo, là dove il 10 settembre del 1943 si accese la prima dinamo della Resistenza contro i nazifascisti; l’ho vista arrivare, e ho subito provato umana simpatia per lei. Di più: ho provato sincera solidarietà nei suoi confronti. Per la sciarpa rossa che indossava, e ancora al pensiero di ciò che avrebbero detto di lei, venuta lì a ricordare i partigiani oltre settant’anni dopo la fine della guerra di Liberazione, i molti simpatizzanti del M5S che affollano i blog del movimento e zone limitrofe scrivendo ' Viva il Duce! ' e inneggiando a un pensiero subculturale autoritario e razzista. Sono certo che Virginia Raggi li abbia molto, davvero molto, delusi, lei con la sua sciarpa rossa.

Altrettanto immenso imbarazzo mi suggerisce chi difende, senza se e senza ma, la sua semplicemente invisibile avventura in atto di sindaca, e questo al là di là dei meriti spiccioli e delle molte oggettive difficoltà incontrate, degne dei chiodi a quattro punte che i gappisti disseminavano per le strade proprio durante l’occupazione tedesca della città. Quindi, per estensione, il Movimento 5 Stelle nella sua interezza tra Pincio, Palatino e, s’intende, il Campidoglio, dove com’è noto attualmente sventola, non meno invisibile, il loro vessillo fantasma.

Ne difendono le prove nonostante le mille sue opacità e lo spirito gregario rispetto al sacro “Blog” di Beppe Grillo o che dir si voglia che sembra sempre più assomigliare ad Hal, il cervello elettronico paranoico di 2001, odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Senza neppure l’ironia della filastrocca finale del giro giro tondo...

Fosse un tema, lo svolgimento dovrebbe essere il seguente. Per un semplice senso del limite e dell’ironia, occorre segnalare il paradosso di una sindaca inesistente, come già Agilulfo, il Cavaliere creato da Italo Calvino. Solo che questa non è una favola, e Roma non certo il municipio di Carlo Magno. Forse, ho dimenticato di dirlo, ma nel frattempo Roma, proprio la Città Eterna dei centomila cloni del gigante Sbardella, si appresta a mostrarsi in fase terminale, meglio, priva di un proprio destino ulteriore, una gittata progettuale rispetto al futuro. Alla frutta se non all’ammazzacaffè, direbbero i prosaici del Trullo. Adesso, con una battuta, mi direte che l’Urbe è abituata a ogni evenienza, dai Barbari e ai Barberini. Ai democristiani mannari di «’ a Fra’ che te serve?» e ai palazzinari amici degli assessori all’annona, anzi, di se stessi. Verissimo, nessuno mette in dubbio che Roma sia un aggregato di piccole, anzi, piccine borghesie inurbate in quartieri che mostrano un respiro pre- comunale, più i ministeri e le doppie ambasciate ( presso lo Stato, presso la Santa Sede e talvolta anche i Cavalieri di Malta, lo sapevi questo?), luoghi dove non si produce altra cultura se non quella della burocrazia più o meno titolata, griffata, attenta a ogni genere di circolo e loggia.

E ancora che Roma non è mai stata metropoli, al massimo un luogo “dove si incontrano gli attori famosi per strada”, dove si va a farsi insultare a pagamento davanti a un piatto di rigatoni con la pajata ( da “Cencio, la parolaccia”, Trastevere) e poi che, sempre a Roma, “rigatone” sta per una pratica sessuale che si pratica con la bocca.

Continuando con le meraviglie paesaggistiche, a dirla tutta, neppure le “passeggiatrici” della leggendaria via Veneto sono come un tempo: non sciamano più simili a dervisce in attesa del cliente tra “Doney”, “Café de Paris” e la conchiglia tortile berniniana di piazza Barberini nei loro abiti lunghi verdi da prima al Teatro dell’Opera o a Caracalla.

Poi le buche, e l’assenza di ogni vera cultura del minuto mantenimento o del semplice rattoppo. A proposito di buche: una di queste è diventata argomento fisso di conversazione tra me e un altro residente, un vicino di casa, Carlo Verdone. L’apprezzata buca si trova sull’Aurelia Antica, davanti a via delle Fornaci, luoghi antologizzati visivamente anche da Nanni Moretti in Caro diario: «Tu non puoi immaginare quante volte ho rischiato di morire per colpa di quella buca passando da lì in scooter!». Lo so, Carlo, lo sappiamo tutti. Solo la sindaca lo ignora, forse perché sta sul tetto del Campidoglio a conversare come Biancaneve con i suoi sette assessori nani in blazer.

Le Fornaci? Sì, una volta a Roma la Valle delle Fornaci, tra il Vaticano e Monte Mario, era proprio tale, dove i fornaciari erano quasi tutti anarchici e il loro presidio si trovava in via Andrea Doria, al Trionfale, dove non per nulla una lapide apposta all’indomani della Liberazione ricorda “l’apostolo della Libertà” Errico Malatesta, tra piazzale degli Eroi, cui Antonello Venditti ha dedicato una canzone, il mercato dei fiori e la trattoria “Micci”, dov’è incorniciato il passaporto del cantautore Piero Ciampi, angelo livornese caduto a Roma.

Quasi nulla è rimasto di un mondo che Pasolini, altro residente, riferiva al «germe della storia antica», al loro posto, volati via quegli altri, i neo- cravattoni improvvisati della giunta grillina, uno spettacolo estetico da sala- corse, un’interminabile attesa che Beppe e l’altro sorteggino il personale adeguato alla macchina amministrativa. Giusto il tempo di doversi, un istante, dopo dimettere per l’ennesima opacità o gli scontri interni al movimento.

Intendiamoci, Roma era già terminale sotto ben altre orrende bandiere. Poi però sono arrivati la Raggi e i grillini a darle l’ultimo colpo di mannaia perché, come disse una loro “cittadina”: «Io nun so’ politica, io nun so’ politica...».

Gli stessi che di fronte all’evidente propria inettitudine nutrita di protervia hanno il talento, condiviso assai bene dai loro sostenitori con la bava di Tor Sapienza o dell’Infernetto alla bocca, di spostare sempre l’oggetto del discorso: «È colpa dei PDioti!». E ancora, davanti agli alberi pizzuti della Caduta cittadina: ma come vi permettere di imputare a Virginia i guasti, i crimini, le pugnalate inferte al corpo dell’Urbe come già su quello di Cesare imperatore?

È vero, nulla di tutto ciò può esserle addebitato, salvo una stellare manifesta invisibilità. Ma solleviamo per un istante gli occhi dalla miseria burocratica delle delibere, dei capitolati d’appalto, delle mail che giungono dalla Casaleggio & Associati, delle assicurazioni all’insaputa della diretta interessata, delle facce da piena continuità con il tempo alemanniano o veltroniano o semplicemente rionale o da “trivial pursuit” in terrazza, proviamo a sorvolare rasoterra con lo sguardo la città, come già Federico Fellini nella scena finale di Roma, film- summa della Capitale del 1970.

La lunga sequenza girata sul Raccordo Anulare, dove in progressione c’è modo di assistere a un’epifania di ingorghi, di passeggiatrici sotto gli ombrelli del diluvio capitolino, di marchettari ossigenati che ridono e salutano la cinepresa, di cavalli fuggiti dalle stalle di Testaccio, e poi carretti alla deriva di raccoglitori di puntarelle, e perfino il pullman dei tifosi del Napoli, con il gentiluomo giallorosso che li accosta con la sua Seicento Fiat e fa loro un segno, ossia agita la mano a coppa verso il basso nel gesto della ' pompa', poi i falò, la celere con i suoi scudi, e camion, carri armati, motociclisti ( fra questi c’è anche una giovanissima Eleonora Giorgi), tergicristalli estenuati dal fango che la pioggia trascina, e un altro camionista di passaggio ancora che, rivolto questa volta alla troupe e allo stesso Fellini, grida con antico cinismo da centurione di ritorno dalla Gallia o la Britannia di Ariccia: «’ A faciolari!!!».

Così fino alla stasi definitiva davanti al Colosseo in notturna. E ora? Ora c’è il pronunciamento di Claudio Santamaria, di Sabrina Ferilli o addirittura di Antonello Venditti davanti all’Ara Coeli a 5 stelle, parodie insostenibili dell’impegno, così come lo erano, per quanto sapessero altrettanto di sudditanza interessata o comunque di terrazza conformista, quelli del tempo di Berlinguer e poi di Veltroni e Bettini...

Il tempo in cui tra la bella gente dei salotti di sinistra nominare il nome di “Luca”, “Odevaine Odevaine”, era motivo di vanto. Posso dire che godo ormai fino allo spasimo quando, di fronte alle naturali obiezioni sull’incapacità, l’opacità e perfino il riflesso condizionato da subcultura autoritaria del M5S, mi sento dare del «venduto al Pd» ( sic), già, se prima obiettavo che basterebbe conoscere un po’ della mia storia, adesso invece dico che è proprio il Pd a fornirmi vou- cher e accappatoio con tanto di iniziali ricamate in oro per quest’opera di delegittimazione del nuovo governatorato cittadino cresciuto all’ombra di un signore che con il suo joystick regge e sembra governare da lontano il corso delle cose capitoline.

Perché mai dovrebbe essere uno scrittore che detesta la semplificazione da Punto Snai a farsi crocifiggere sull’Appia Antica per dimostrare che così non è, quando invece dagli amministratori attuali non si coglie un solo cenno di discontinuità? Fosse anche la decisione di ribattezzare, che so, piazza Venezia con il nome dell’imperatore Nerone, che tutto era, come puntualizzano ormai gli storici, men che un faciolaro, anzi, egli difese lo stato sociale e i ceti medi. Nerone, anche a dispetto della parodia di Petrolini, era un vero socialdemocratico, perfino più del compianto Tanassi.

Si possono mai ritenere attendibili coloro che, nella città della cinica indolenza, mai si dissociano da chi coltiva insulti del tipo «lavati i capelli e sciacquati la bocca con la candeggina prima di nominare Virginia» ? Certi giorni, come un sommozzatore scendo negli abissi delle loro pagine Facebook e trovo un mondo di banner seriali proprio dell’analfabetismo politico mai sfiorato dal dubbio della dialettica. Alla fine, ne sono certo, le cose andranno come sto per dirvi. Sopra i Sette Colli, al posto dell’In hoc signo vinces che visitò Costantino nel suo sogno proto- cristiano, proprio nel cielo sopra lo Studio Sammarco ( e Previti), a fronte dell’ennesimo tonfo cittadino, apparirà d’improvviso lucente un nuovo monogramma perfetto a designare i nostri eroi: “! 1! 1! ”. Vabbè, certo, ma Roma?

Roma, cosa? Roma ha cessato d’esistere da tempo.