«Hanno sparato a Togliatti». È un attimo e tutta l’Italia sa la notizia. È un attimo e le fabbriche si fermano, le piazze si riempiono di operai, si assaltano e distruggono sedi dei partiti. È un attimo e i partigiani vanno a prendere i mitra Sten che hanno tenuto nascosti. Genova, Milano, Torino sono già in fiamme, ma anche Napoli e Taranto. È il 14 luglio del 1948, un’estate torrida. Un’estate da insurrezione, da guerra civile. In poche ore ci sono quattordici morti e trecento feriti, e saranno di più nei giorni successivi. Un giovanotto catanese, Antonio Pallante, se n’è partito dalla sua città siciliana e se n’è venuto a Roma per sparare a Togliatti. L’ha aspettato davanti a Montecitorio, e quando il leader comunista ne è uscito con al fianco Nilde Iotti ha tirato fuori il suo revolver comprato al mercato nero per millecinquecento lire e gli ha tirato quattro colpi: uno alla schiena, uno alla nuca, uno al braccio, l’altro finito in un cartellone. Le pallottole sono di tipo scadente e a bassa penetrazione, e non saranno mortali. Ma questo si saprà dopo. Adesso Togliatti è a terra in una pozza di sangue. Sono le undici e trenta. I giornali escono in edizione straordinaria con titoli a 9 colonne: «Togliatti colpito a morte in Piazza Montecitorio».

Il ministro dell’Interno, il democristiano Scelba, mostra i muscoli e manda l’esercito a presidiare strade e piazze: fa sapere che è pronto alla guerra. Ma Alcide De Gasperi, il capo del governo, telefona in Francia. C’è il Tour in Francia.

– Monsieur Bartalì, au telephone s’il vous plait… – Pronto?

– Pronto, Gino, ciao, sono Alcide De Gasperi, ci davamo del tu una volta… È il 14 luglio 1948, e il Tour quel giorno riposa. Bartali è sulla spiaggia davanti all’albergo a Cannes. Seduto sulla sdraio fuma una sigaretta dopo l’altra e disegna sulla sabbia la tappa del giorno dopo, le salite, i punti in cui avrebbe potuto attaccare.

Bartali sapeva dell’attentato a Togliatti, tutti lo sapevano e poi quasi tutti gli inviati dei giornali erano stati immediatamente richiamati in patria.

De Gasperi venne subito al punto.

– Gino, puoi vincere il Tour?

Bartali non stava andando bene, in classifica era indietro e venti minuti di distacco lo separavano da Louis Bobet. Ha trentaquattro anni, non è più un ciclista di primo pelo, e milioni di chilometri nelle gambe. Gino fu schietto, come era la sua natura.

– Eccellenza, il Tour non lo so, ma la tappa di domani la vinco.

La “tappa di domani” sono in realtà due tapponi massacranti consecutivi: la Cannes- Briancon e poi la Briancon- Aix les Bains. Quello che combina Bartali su quelle salite è ormai leggenda, mito, storia. Vola da solo sull’Izoard e lascia a bocca aperta i francesi. Il giorno dopo vince nuovamente, conquistando la maglia gialla. Oh, quanta strada nei miei sandali / quanta ne avrà fatta Bartali / quel naso triste come una salita / quegli occhi allegri da italiano in gita / Io sto qui aspetto Bartali / scalpitando sui miei sandali / da quella curva spunterà / quel naso triste da italiano allegro.

La notizia arriva in Italia nel pomeriggio. Il deputato Tonengo, piemontese, democristiano, annuncia a Montecitorio che Bartali ha stravinto la tappa decisiva del Tour: applausi, evviva, la tensione sembra attenuarsi. Nel paese ci sono cortei festosi. Togliatti, appena sveglio dall’intervento che lo ha salvato, chiede come sia andata la tappa al Tour: è un appassionato di ciclismo, e di calcio – tifa per la Juventus – come tutti gli italiani.

Il 16 luglio del 1948 esiste una sola notizia per i giornali italiani: Gino Bartali ha vinto al Tour De France. La guerra civile è scongiurata. Gino Bartali ha salvato la patria.

Bartali, il Tour poi lo vinse, dieci anni dopo che aveva vinto il primo, nel 1938. E fu l’ultima delle sue vittorie importanti, che comprendevano tre Giri d’Italia ( nel 1936, nel 1937 e nel 1946), quattro edizioni della Milano Sanremo e tre Giri della Lombardia. Chiuse la sua carriera nel 1954.

Era un uomo semplice, Bartali, una famiglia povera di origini contadine, toscano. Un caratteraccio, con la battuta sempre pronta e le frasi spigolose: lo soprannominarono Ginettaccio. Con quel suo tormentone che lo seguirà tutta la vita: «Gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare» – il su marchio di fabbrica. Il suo ciclismo era di forza, di grinta, di tenacia: leggendaria fu la rivalità con Fausto Coppi, l’Airone, che peraltro aveva iniziato da gregario proprio con lui, più giovane di cinque anni; quanto l’uno sembrava andare avanti a sudore, senza arrendersi mai, l’altro era l’eleganza, la bellezza, un talento che sembrava soprannaturale. Ma erano di più che due modi di stare in bicicletta, erano proprio due mondi – l’uno ancorato alla terra e alla fatica, l’altro che sembrava più adatto alle luci della città e della ribalta; l’uno democristiano in una terra rossissima, l’altro “arruolato” dalle bandiere rosse. Era un’Italia così, in bianco e nero, le strade impolverate, la gente che urla ai bordi, loro che si sfidano e affrontano a colpi di pedale. Eppure, rimane storica una foto che li ritrae mentre l’uno passa la borraccia dell’acqua all’altro. Era il Tour del 1952, nella tappa tra Losanna e Alpe d’Huez durante la salita del passo del Gabilier e Coppi era in maglia gialla. Ma Gino Bartali, in realtà, fu molto di più di un campione di ciclismo, fu un uomo coraggiosissimo, un eroe schivo, ma di grande umanità, che mise più volte a rischio la propria vita e quella della sua famiglia per salvare numerosi perseguitati dal regime nazifascista.

Il cardinale di Firenze, Elia Dalla Costa, amico e guida spirituale di Bartali, aveva organizzato una rete clandestina per fornire documenti falsi a ebrei e altri perseguitati nascosti in Toscana e Umbria. Non solo Bartali fu uno degli anelli più importanti della catena di salvataggio, ma lui stesso ospitò clandestinamente una famiglia di suoi amici ebrei.

Nel 2013 è stato dichiarato Giusto tra le nazioni. Proprio un campione di un altro mondo.