Ruggero Cappuccio, drammaturgo, regista e attore. È direttore artistico del Napoli Teatro Festival Italia che si svolgerà dal 5 giugno al 10 luglio 2017. In questi giorni è in scena al Teatro Eliseo di Roma, fino al 7 maggio, con lo spettacolo Spaccanapoli Times, di cui è autore, regista ed interprete.

Che Paese è, oggi l’Italia? Cosa percepisce la sua prospettiva e la sensibilità umana e artistica?

L’Italia negli ultimi tempi somiglia troppo ad un Paese progettato per non funzionare. Mi ricorda Leonardo da Vinci: quando realizzava un disegno di ingegneria idraulica introduceva tre o quattro ingranaggi, messi a bella posta, per non far funzionare l’invenzione.

Perché lo faceva? Perché se qualcuno gli avesse rubato il progetto, non sarebbe riuscito a farlo marciare. Era una sorta di copyright del ‘ 500 che garantiva a Leonardo la tranquillità che nessuno potesse copiargli l’invenzione.

E riportato all’Italia cosa spiega?

Da noi le cose sono progettate per non funzionare. I sistemi in Italia non vanno, esistono solo le eccezioni. Quando qualcuno deve realizzare qualcosa e parliamo di uno su dieci - deve rivolgersi ad un soggetto eccezionale che gli risolve il blocco dell’invenzione. E quel demiurgo è generalmente un politico, un personaggio dell’alta finanza, o dell’establishment...

Stiamo parlando di competenze specifiche..

A volte più di competenze dovremmo parlare di influenze. Voglio dire che il blocco dell’ingranaggio si risolve ma la persona che si è rivolta al soggetto “eccezionale” resta debitore per tutta la vita. Questo ci differenzia enormemente dalle altre Nazioni, quelle virtuose, dove vige il sistema, l’interruttore è uno strumento e chiunque pigi un pulsante deve essere in grado di accendere la luce.. ”

A prescindere, per citare Totò..

Appunto a prescindere. Perché viene valorizzato il merito. In Italia invece ci troviamo di fronte a degli interruttori che puntualmente hanno bisogno della mano del padrone per accendere la luce.

Questa dipendenza cosa determina?

Sia micro che macrodanni, danni di programmazione nelle attività culturali, politiche e sociali. A fronte di questo l’Italia è un Paese pieno di ricchezze intellettuali però fortemente anarchiche, indipendenti. Spesso è la loro forza. Infatti quest’indipendenza trova inevitabilmente sbocco all’estero, dove valgono i sistemi e non le eccezioni. E dunque un soggetto che ha una idea che spera di realizzarla trova al di fuori del nostro Paese opportunità che qui latitano.

Lei è il nuovo Direttore Artistico del Napoli Teatro Festival, manifestazione internazionale che compie 10 anni. La sua nomina è frutto di competenza e di storia artistica?

E’ un’eccezione, alla stessa stregua di quando diventai direttore artistico del festival di Benevento. Anche lì fu una eccezione, si crearono allineamenti planetari talchè per una congiuntura positiva divenni il direttore del festival.

Allora c’entrano le congiunzioni astrali?

Quasi. Il sindaco di Benevento era Sandro D’Alessandro; l’assessore alla cultura, Nazareno Orlando, amante e grande conoscitore di teatro; il sottosegretario al Ministero del Lavoro era Pasquale Viespoli: persone perbene e intelligenti. Garantivano l’indipendenza al direttore artistico, accompagnavano i processi inventivi che la città culturalmente svolgeva in quel momento. Naturalmente non avrei accettato la direzione artistica a Benevento, così come non l’avrei accettata a Napoli, se non avessi avuta la garanzia di totale indipendenza. In questo caso il presidente della Campania, De Luca, è una persona profondamente rispettosa delle autonomie progettuali degli artisti, o degli intellettuali.

Qual è il filo conduttore che ha ispirato questa edizione del Napoli Teatro Festival?

La memoria e la sua trasmissione, intesa come trasmissione del sapere. Il festival si capisce guardando la sezione dei laboratori. Se una persona guarda la presenza di Nekrosius, di Peter Brook, di Tomislav Janezic, scopre che questi artisti vengono in Italia per portare le loro conoscenze nel- l’incontro con i giovani italiani, napoletani e del Sud, o al laboratorio di Brunello Leone, l’unico artefice del Teatro dei burattini. Ci si rende conto così che tutto è stato puntato alla trasmissione dei saperi. E l’altro elemento è l’abbattimento dei diaframmi pretestuosi tra le arti, la rinuncia alla fissazione di pensare che la pittura sia una cosa e la musica un’altra, o che la letteratura e il teatro siano un’altra ancora. Tutta la storia dell’arte di questo pianeta ci dimostra che queste cose sono fatte per vivere armonicamente. Mi spiego. Apriamo il Festival con Franco Battiato in Piazza Plebiscito non solo per fare un concerto ma perché Battiato è un poeta che ha scelto di attivare la sua poesia attraverso la forma canzone. E poi abbiamo Mimmo Paladino, l’artista che accompagna le immagini del Festival; Antonio Biasucci, il fotografo che interagisce con Battiato nel concerto. Sentiremo le canzoni storiche del cantautore catanese ma anche le parole di Vico, di Giordano Bruno. E poi c’è un atto oggettivo, sincero, che passa attraverso il costo dei biglietti che era di 34 euro e ora sarà di 8; cinque euro per gli under 30, niente per anziani e disabili.

Il modo migliore per favorire l’avvicinamento del pubblico?

E’ una riflessione elementare. Se ci soffermiamo a pensare, capiamo che la letteratura, la musica sinfonica, la pittura, le arti in genere fatalmente interessano a persone che non dispongono di denaro. Si potrebbe affermare che le persone che dispongono di poco denaro si rifugiano nell’arte ma si potrebbe opinare anche che le persone che amano l’arte sanno che il denaro ha poca importanza nella vita. Se si fanno queste riflessioni, allora a mio avvisa esse devono trovare una ricaduta reale nelle cose.

L’interesse nel suo teatro e nella sua drammaturgia per gli emarginati, gli outsider è molto forte. Perché?

Mi interessano gli emarginati perché penso che tutte le persone dovrebbero fare un lavoro di revisione del proprio io nella loro vita. Se non si capisce che siamo tutti umili molecole di un unico corpo non andiamo da nessuna parte. Se non si capisce che quando ci troviamo di fronte ad un disagiato siamo di fronte ad una particella del corpo universale che sta soffrendo. Se soffre una particella, soffre tutto il corpo. Gli emarginati mi stanno a cuore perché soffrono, sono degli amplificatori del malessere sociale, sono dei sintomi. Gli emarginati sono il dolore di una società che non funziona. E’ inconcepibile che in una società globalizzata come l’attuale, nella quale la ricchezza viene distrutta, possiamo consentirci di avere il lusso di tanta povertà.

Nel suo spettacolo “Spaccanapoli Times”, in scena al teatro Eliseo di Roma, si affronta proprio questo tema: la velocità, la globalizzazione, come facciamo ad essere fuori da questi processi?

Dipende da quali siano i processi, perché se sono veloci ma negativi, è meglio rimanerne fuori. Questi processi sono solo strumentali, le tecnologie messe a disposizione del mondo sono strumenti troppo potenti.

Processi e strumenti però che si possono governare..

Ma a patto di possedere un baricentro interiore. Un bambino di 10 anni non lo governa, una persona non strutturata non lo governa. Il dramma è nel fatto che un minore possa accedere ad un sito pornografico: perché non è possibile creare una password? Ci sono i telefoni azzurri ma per la Rete non c’è niente che tuteli il minore. E così i genitori si ritrovano con figlie adolescenti che hanno fissato appuntamenti con uomini adulti. Gli strumenti sono troppo potenti affinchè gli adolescenti li possano gestire.

Ma il messaggio sul disagio della contemporaneità arriva ai giovani?

A certe latitudini arriva. Le racconto l’esperienza del docufilm Essendo Stato, da me diretto, in cui interpretavo Paolo Borsellino, un lavoro che ha attraversavo tante città e mi ha permesso di incontrare e parlare con tanti ragazzi, studenti, giovani magistrati. Il tema della legalità, dell’equilibrio sociale è molto presente nei giovani, l’ho toccato con mano, quanto meno ho constatato che la memoria di Falcone e Borsellino è molto viva ed ancora vitale”.

A cosa si deve?

Alla grandezza antropologica di Falcone e Borsellino, alla loro grande generosità, al fatto che loro hanno comunicato attraverso dei corpi sinceri, in un momento in cui la comunicazione era fondata su una immagine. C’è quella bellissima foto in cui Falcone e Borsellino, dietro un tavolo, si sorridono: c’è complicità e i ragazzi vi leggono un’amicizia, leggono la lealtà in quei sorrisi, una vicinanza. E percepiscono che un magistrato possa sorridere, essere sereno, che non è uno sceriffo, un poliziotto ma una persona che ama il mondo, la vita.

Matteo Renzi, nella sua mozione per le primarie, sostiene che «la cultura è il lievito che riempie gli spazi oscuri che alimentano le paure e la rabbia». E poi sottolinea come il suo governo abbia dato molti finanziamenti alla cultura.

Se si rafforzano i fondi ben venga: il problema tuttavia è la modalità con la quale si spendono i soldi. Penso alla tragedia del Teatro Valle che continua a rimanere chiuso in una città importante come Roma. Ritorniamo al sistema e alle eccezioni. Secondo Lei a Salisburgo o a Londra sarebbe rimasto chiuso così a lungo? In Italia c’è un sistema diverso come un blocco.

Con il suo progetto Quartieri di Vita, lei ha dato spazio ai teatri di periferia, a veri avamposti di resistenza culturale..

Appena arrivato a Napoli, in qualità di direttore del Festival, ho visitato e dato spazio al teatro Sanità, al Nest di Ponticelli, al Tan di Piscinola, ad altri luoghi della città. Credo sia interessante per un Napoli Teatro Festival se riesce ad attivare esperienze nazionali ed internazionali, se riesce a guardare bene la propria identità. E’ evidente che il teatro a Napoli non è solo un luogo estetico ma anche etico. Significa che può salvare delle vite, può aiutare dei giovani a fare il tecnico di palcoscenico anziché lo spacciatore. Il Teatro deve avere la sua funzione poetica, etica, ma non bisogna dimenticare nessuna parte del corpo.

Lei si sente, parafrasando il suo ultimo spettacolo, un po’ Don Chisciotte?

Ho troppo poco ego per sentirmi Don Chisciotte. Diciamo che mi ci sento molto vicino: mi fanno simpatia le persone che vogliono salvare una biblioteca di città, un giardino, che vorrebbero la presenza delle istituzioni ed invece non ce l’hanno. A Benevento, ad esempio, ho attivato un laboratorio con Laura Curino che si chiama “Santa Impresa” dove si parla delle vite dei santi dell’ 800 che colmarono un tragico vuoto istituzionale. Se noi ci riflettiamo, in Italia questi santi hanno aperto orfanotrofi, luoghi sociali di accoglienza, istituito dormitori, creato scuole. I santi ed i volontari laici hanno aperto luoghi che spettavano alle istituzioni.

Napoli non è sempre riconoscente verso i suoi geni o artisti, adesso è la volta di Totò..

Questa è una fisiologia storica della città. Ci insegna che Napoli è dove vogliamo che sia, con noi sempre.

Lei è un po’ melanconico?

Penso che la melanconia sia un elemento che ci aiuta nella conoscenza di noi stessi e degli altri e, quando è ben graduata, dà una energia vitale.