«Ma che devo fare per andare in galera» ? Francesca, poco più che quaranta anni, se lo lascia sfuggire durante l’ennesima udienza di convalida all’ennesimo arresto. Quasi un’invocazione, un appello, che rimbalza nell’aula affollata delle udienze “direttissime”.

Con quello della settimana scorsa – accusata di tentato furto aggravato per avere portato via da un’autorimessa una manciata di chiavi e il frontalino di una radio – fanno 23 procedimenti penali pendenti, alcuni in fase di indagine, altri definiti in primo e in secondo grado, negli ultimi due anni. Un vero e proprio tour de force giudiziario per una figura che sfugge alle consuete classificazioni sociali.

Cresciuta nella capitale, Francesca vive una vita quasi normale: il lavoro, almeno quando c’è, il matrimonio. Poi il baratro della droga che le costa una condanna definitiva per aver venduto una dose poi risultata fatale. Anche il suo compagno muore a causa di un’overdose, e Francesca resta vedova, con una pensioncina di reversibilità che le arriva per il lavoro del marito defunto.

Una vita difficile, vissuta ai margini della città, tra gli ultimi. Tanto carcere, poi accampata dove capita: in una tenda arrangiata sul Tevere, o dentro i padiglioni dismessi del Forlanini, la donna viene inserita anche in un percorso di rinserimento attraverso una comunità terapeutica in Veneto, ma dura poco. Francesca scappa da Vicenza e torna a Roma. Non sta bene. Ormai anche gli ultimi amici, che ostinatamente avevano tentato di aiutarla, rinunciano.

La donna inizia così la sua personale odissea giudiziaria: tra il 2015 e il 2017 si rende protagonista di piccoli furti ( alcuni commessi a distanza di poche ore l’uno dall’altro) e non rispetta gli obblighi che le impone il tribuna- le in conseguenza agli stessi reati. Finisce così con l’entrare e uscire dalle aule di piazzale Clodio per una ventina di volte, l’ultima delle quali, appunto, la settimana scorsa, quando era stata sorpresa dopo avere tentato di sottrarre alcune chiavi e poco altro da un garage a Monteverde.

Davanti al giudice che deve convalidare il suo arresto, la Procura - visto anche il curriculum giudiziario dell’indagata - chiede la custodia cautelare in carcere, ma la richiesta viene respinta dal tribunale che, salomonicamente, assegna alla donna l’obbligo di firma in questura, ignorando contestualmente anche la richiesta del suo legale. L’avvocato Dario Candeloro infatti, cercando di evitare l’ennesima carcerazione inutile ai suoi danni, aveva richiesto per Francesca l’applicazione della custodia cautelare presso una struttura di cura.

Una tesi che si sosteneva anche sulla perizia psichiatrica che avevs riconosciuto Francesca come solo parzialmente in grado di intendere. Una soluzione prevista dal codice di procedura penale e che avrebbe certamente aiutato una donna che, appare evidente, continua a chiedere aiuto. La richiesta però è stata respinta e il “problema” Francesca così, rimandato al prossimo furtarello. «La mia assistita versa in una situazione assolutamente disperata, ai limiti del surreale, come d’altronde rappresentato all’autorità giudiziaria.

Sotto il profilo prettamente giuridico – racconta l’avvocato Candeloro, che può consolarsi di avere almeno evitato il carcere per la propria assistita – si è ottenuto certamente il miglior risultato auspicabile; tuttavia sarebbe opportuno un incisivo intervento, da parte degli enti competenti, al fine di favorire il sostegno che necessita una persona che versa in queste condizioni, ed evitare il verificarsi di paradossali situazioni analoghe». Ora Francesca deve recarsi due volte la settimana in questura per la firma. Almeno fino a quando non tenterà di rubare qualche altra sciocchezza.