Come per tante altre cose, l’anno 1977 è stato decisivo anche per l’itinerario politico- culturale di Leonardo Sciascia, lo scrittore che – forse lui solo con Pier Paolo Pasolini – può essere considerato uno dei pochi veri intellettuali del secondo Novecento italiano. È proprio in quell’anno che infatti si esprime in tutta la sua portata la vocazione libertaria dello scrittore in una esplicita presa d’atto pubblica di “rottura” con il Pci e la cultura consociativa che sarà anticipatrice degli snodi di conflitto dei decenni successivi della società italiana.

Intanto, con un gesto simbolico forte, all’inizio del ’ 77 Sciascia si dimette dalla carica di consigliere comunale del Pci a Palermo. Non che fosse mai stato intellettualmente marxista o comunista, la sua formazione era semmai improntata al relativismo pirandelliano e a alcuni tratti dell’illuminismo francese. E l’unica sua “discesa in campo” fu, nel ’ 74, in occasione della campagna per il referendum per l’abolizione della legge sul divorzio, in cui erano in prima fila i radicali di Marco Pannella. E l’anno successivo, dopo tante insistenze, in vista delle ele- zioni comunali nel giugno ’ 75 aveva accettato di candidarsi, ma come “indipendente”, nelle liste del Pci. Ed era stato eletto, data la sua popolarità, con un fortissimo numero di preferenze.

Ma durò solo tre anni. All’inizio del ’ 77, infatti, lo scrittore sbatte la porta e rompe definitivamente col Pci. Anche se i segnali di insofferenza venivano da lontano. Tanto per dire, il 15 marzo del ’ 50 Sciascia – allora maestro elementare nel suo paese, Racalmuto – aveva pubblicato un articolo- necrologio per sottolineare l’importanza dell’autore del romanzo La fattoria degli animali, decisamente antitotalitario e anticomunista. “Molto prima del 1984 è morto George Orwell” era il titolo dello scritto.

E nel ’ 69, proprio mentre iniziava la sua collaborazione col Corriere della Sera, dava alle stampe Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A. D. , un testo che racconta, attraverso una rappresentazione teatrale, una controversia settecentesca. Ma la storia, apparentemente banale, era in realtà una metafora- denuncia antitotalitaria che descriveva i rapporti tra l’Urss e gli Stati satelliti: le iniziali A. D. identificavano infatti Alexander Dubcek, il protagonista nel ’ 68 della Primavera di Praga. Insomma, Sciascia non era mai stato il classico intellettuale organico.

Nel ’ 77 però la strategia berlingueriana del “compromesso storico” e certi accenti consociativi lo costringono alla sua “uscita di sicurezza” nel momento stesso in cui prende atto della sua totale incompatibilità con un certo mondo e le sue logiche. Non a caso subito dopo le sue dimissioni da consigliere comunale si mostra in sintonia con quanto stanno scrivendo e muovendo in Francia i “nuovi filosofi” e accetta, per il laico e filo- socialista editore Marsilio, di scrivere la prefazione al manifesto anti- totalitario La barbarie dal volto umano di Bernard- Henri Lévy, un pamphlet visto ovviamente come il fumo negli occhi da quelli del Pci.

Sciascia viene subito accusato di fare da battistrada da noi al dilagare del nuovo pensiero critico francese. E lui replicava secco: «Sono portato a credere che in Italia le dighe del conformismo e del “compromesso” li fermeranno… ma anche se dilagassero non credo che il loro pessimismo possa toccare i vertici già raggiunti dal compromesso storico, né sommergere, quindi, quel che il compromesso storico ha già sommerso». E concludeva che «non soltanto le oppressioni e i massacri della sinistra al potere offrono credibilità ai “nuovi filosofi”, ma anche le ambiguità, i giochi delle parti, le opportunistiche assenze e le elettoralistiche presenze, la desistenza ( con richiamo alla Resistenza) della sinistra non ancora al potere». Parole definitive e chiare che spiegano tutto l’itinerario politico- culturale successivo della scrittore e intellettuale siciliano.

Fatto sta che dopo questi atti pubblici Sciascia manda in libreria un romanzo, forse il più autobiografico dei suoi libri, in cui tratteggia uno spaccato delle contraddizioni e dell’identità politica dell’Italia del secondo dopoguerra: Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia ( nel ’ 77 edito da Einaudi, ora in una nuova edizione targata Adelphi). Già da una lettura immediata, il testo appare come il romanzo del disincanto politico e della perdita della fede comunista.

Ma non in chiave tragica o risentita, come per altri scrittori precedenti o successivi, ma con tanta ironia e leggerezza libertaria. Come il vecchio conservatorismo siciliano, superstizioso e controriformista, la nuova religione comunista alla fine si era rivelata, per Sciascia, una illusione e lo scrittore parafrasa il percorso di Voltaire e del suo Candido. Va ricordato che il recupero dell’apologo volteriano in chiave contemporanea era stato preceduto di due anni dal regista Gualtiero Jacopetti che – con Franco Prosperi e la sceneggiatura di Claudio Quarantotto – aveva mandato nelle sale cinematografiche nel ’ 75 il film Mondo Candido, unica pellicola non documentaristica ma di fiction del regista, in cui Candido, il personaggio di Voltaire, che vive nel castello in Westfalia, dopo essere stato cacciato di casa, girovaga per paesi ed epoche diverse e si arriva all’epoca contemporanea e ai suoi conflitti politici.

Ma il romanzo di Sciascia va oltre, presentandosi appunto come un apologo sull’Italia e gli intellettuali italiani dall’immediato secondo dopoguerra al ’ 77, anno in cui si concludono le vicende della narrazione. Candido Munafò, il protagonista, non a caso nasce in Sicilia nei giorni dello sbarco americano. E cresce in una realtà devastata, squallida e odiosa, quale quella dell’isola postbellica. Rassegnazione, conformismo, cinismo, consociativismo, corruzione allignano ovunque.

Candido viene abbandonato in tenera età dalla madre Maria Grazia, che gli preferisce la compagnia del nuovo marito americano, Hamlet, ufficiale delle truppe alleate. Interessanti il colloquio, nel ’ 77, tra Candido e il marito della madre, in cui l’ex ufficiale americano riconosce che per ordini superiori aveva reclutato per le cariche pubbliche postfasciste personaggi quantomeno sospetti. Alla domanda di Candido – «come ha fatto lei, dopo appena qualche giorno che era arrivato nella nostra città, a scegliere i peggiori cittadini?» – l’americano risponde: «Non li ho scelti io. Quando mi hanno mandato nella vostra città, mi hanno consegnato la lista delle persone di cui dovevo fidarmi… Dovevo: era un ordine insomma».

E il protagonista del romanzo ribatte: «Comunque, l’ho sempre sospettato. Voglio dire: che lei fosse arrivato con la lista dei capi della mafia in tasca». E la puntualizzazione dell’ex ufficiale è lapidaria: «Le dirò che l’ho sospettato anch’io, che mi avessero dato una lista di mafiosi… Ma, veda, noi stavamo facendo una guerra…». Un passo del libro questo, che anticipa di quasi quarant’anni e per firma di Leonardo Sciascia, un tema che sta al cuore del film di Pif In guerra per amore che ha suscitato tante polemiche… Ma torniamo alla trama. Il padre di Candido, un classico avvocato siciliano di tutto rispetto, viene coinvolto in questioni di mafia e si suicida. Il bambino passa allora sotto la tutela del nonno materno, il generale della Guerra di Spagna Arturo Cressi che, dopo essere stato fascista e ufficiale della Milizia, si fa eleggere deputato con la Dc, «tanto è la stessa cosa».

Il piccolo Candido, allora, finisce nella mani di un prete- precettore che resterà fino alla fine il suo amico e interlocutore privilegiato, il grande alleato nel duello che insieme cercheranno di stabilire prima contro la Chiesa cattolica e il suo conservatorismo e, dopo la rottura, contro la Chiesa comunista. Candido si ritrova solo con don Antonio, un prete irregolare che non rinuncia mai a pensare con la propria testa e verrà, per questo, scomunicato e messo al bando dalla Chiesa. Il comunismo, cui Candido e il prete, ap- prodano in cerca di un ambiente diverso, si rivela una grande illusione. Qui le pagine di Sciascia sono molto efficaci, soprattutto laddove descrive la sua critica al Pci e ai suoi metodi. Lo scrittore dipinge infatti il partito come una Chiesa all’inverso, con le sue gerarchie, le sue rigidità, i suoi moralismi, i suoi interessi da difendere, le sue omertà di fronte alla disciplina di partito e alla ragion di Stato. Tanto che Candido, considerato un provocatore e un rompiscatole, viene “processato” ed espulso.

In un’Italia diventata nel frattempo una grande Sicilia, il protagonista del romanzo non ha scampo e va a Parigi, la città – per tornare a quanto già detto – dei “nuovi filosofi”: «Era una grande città piena di miti letterari, libertari e afrodisiaci che sconfinano l’uno nell’altro e si confondono». Anche perché, «tutto il bel parlare che si fa di eurocomunismo di comunismo italiano, di emancipazione dall’Unione Sovietica, è soltanto un bel parlare…». No, meglio Parigi, la sua cultura, le tracce di Hemingway e di Fitzgerald. E qui, proprio in una sera del ’ 77, Candido ritrova il suo precettore: «Qui si sente che qualcosa sta per finire e qualcosa sta per cominciare: mi piace veder finire quel che deve finire…». E, davanti alla statua di Voltaire, in rue de Seine, Candido ammette la sua definitiva liberazione intellettuale. «Non ricominciamo coi padri», dice. E, il romanzo si conclude, con la presa d’atto della sua felicità e della sua dichiarazione di essere solo «figlio della fortuna». Il libro, in sostanza, si delinea come una tagliente satira sull’Italia tra gli anni 40 e 70, piena di compromessi, riciclati, mistificatori, arrivisti, conformisti, ipocriti, affaristi, finti rivoluzionari e asserviti alle logiche.

Che poi l’alternativa, alla situazione italiana, si mostri solo in Francia, è un passaggio che spiega, come dicevamo l’itinerario successivo di Sciascia. Dall’anno precedente, infatti, era aumentata notevolmente la frequenza dei viaggi a Parigi dello scrittore siciliano che intensificava così i suoi contatti con la cultura francese. Cultura francese – si pensi solo ad alcuni autori di riferimento come Albert Camus e Saint- Exupéry – fondamentali nel milieu culturale dei radicali e di Marco Pannella, uno dei pochissimi partiti allora presenti in Parlamento che – con il Msi, il Pli e Pdup- Dp – si schiererà nel ’ 78 contro il governo di unità nazionale e, quindi, contro il “compromesso storico”.

Non a caso, due anni dopo Sciascia accetterà di buon grado la proposta del Partito radicale di candidarsi sia al Parlamento europeo sia alla Camera. Eletto in entrambe le sedi resta a Strasburgo solo due mesi e poi opta per Montecitorio, dove rimarrà deputato fino all’ 83 occupandosi dei lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro ( con una forte critica rivolta alla cosiddetta “linea della fermezza”) e sul terrorismo in Italia. Si espresse, decisamente, contro la legislazione d’emergenza che istituiva poteri speciali e inaspriva molte fattispecie di reato. In seguito a nuovi contrasti con il Pci di Berlinguer, Sciascia abbandonerà comunque l’attività politica, non rinunciando mai però all’osservazione delle vicende politico- giudiziarie dell’Italia, in particolare sul tema della mafia e sul tema del garantismo. L’ultima sua polemica che farà discutere, trent’anni fa, fu infatti scatenata da un articolo sul Corriere della Sera intitolato “I professionisti dell’antimafia” in cui Sciascia affermava che in Sicilia, per far carriera nella magistratura, nulla vale più del prender parte a processi di stampo mafioso.