Adispetto del clamore che ha provocato, per la sua natura o motivazione antirenziana il bersangrillismo - come si potrebbe chiamare il persistente inseguimento del Movimento 5 stelle da parte dell’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani- appartiene ad un fenomeno politico di lunga durata. Anzi, lunghissima.

È il fenomeno della personalizzazione della politica, che risale a già prima della cosiddetta seconda Repubblica, e persino della caduta del muro di Berlino, quando si ritenne invece che fosse finita la politica a sfondo ideologico. E si pensò che in Italia potesse cominciare una politica di natura pragmatica, capace persino di rinunciare alla distinzione fra destra e sinistra, senza rendersi conto che questa era già finita da un pezzo. Da quando? Vi scandalizzerò, ma ho quanto meno il sospetto che fosse finita dal 1980. E per iniziativa, magari inconsapevole, di un leader che passa per il più orgogliosamente legato alla visione ideologica della politica: Enrico Berlinguer.

Nell’autunno di quel 1980 l’allora segretario del Pci con quella che Emanuele Macaluso definì “la seconda svolta di Salerno”, dopo quella di Palmiro Togliatti nel secondo dopoguerra, chiuse a doppia mandata la porta del “compromesso storico” aperta sette anni prima con i famosi tre articoli su Rinascita suggeritigli dalla drammatica fine dell’alternativa di sinistra in Cile, caduto sanguinosamente nelle mani del generale Pinochet.

Il compromesso storico teorizzato da Enrico Berlinguer per l’Italia, ingovernabile democraticamente secondo lui senza la collaborazione fra i due maggiori partiti, la Dc e il Pci, fu la sua ultima scelta di natura ideologica. Fu una scelta compiuta con tale rigore e fede che Berlinguer arrivò a sfidare l’impopolarità della politica di austerità e a trovarsi in un conflitto inedito con rivendicazioni salariali che Forattini su Repubblica seppe rappresentare in quella vignetta ormai storica del segretario del Pci in vestaglia e imborghesito sotto le cui finestre sfilavano fischiando i metalmeccanici.

La pubblicistica corrente attribuisce ancora la svolta berlingueriana del novembre 1980 alla delusione, anzi all’allarme procurato al leader comunista dalla prova francamente disastrosa data dallo Stato, e non solo dal governo di turno, che era presieduto da Arnaldo Forlani, nell’emergenza del terremoto in Irpinia. Fra le cui rovine il segretario del partito comunista, accompagnato da Antonio Bassolino, fu ripreso sofferente e sconvolto dai fotografi e dalle telecamere. E il presidente Sandro Pertini dal Quirinale ne amplificò la sorpresa e il dolore.

Ebbene, sbaglierò ma dopo avere a lungo riflettuto su quei fatti, ed avere letto, fra l’altro, il libro prezioso di appunti, notizie e quant’altro che gli passava allora il più stretto e fidato dei suoi collaboratori, Tonino Tatò, ho maturato la convinzione che Berlinguer avesse girato la chiave in quella toppa, e rivendicato la “diversità” della sua parte politica, per reazione ai rapporti d’alleanza che la Dc aveva ripreso, ed era ormai decisa a rafforzare, con Bettino Craxi. Non a caso meno di tre anni dopo, nell’estate del 1983, il segretario del Psi avrebbe presieduto un governo di coalizione - il pentapartito - con la Dc. E da lì avrebbe tentato di rovesciare i vecchi rapporti di forza a sinistra con i comunisti, passando per la vittoria referendaria sui tagli alla scala mobile, la revisione del Concordato, l’orgoglio di Sigonella, il socialismo tricolore, l’ammissione al G7 e altro ancora.

Fu insomma l’anticraxismo - ma un anticraxismo di natura personale, e non per vendicare la barba tagliata a Marx da Craxi qualche anno prima fra le proteste anche di Eugenio Scalfari - che spinse secondo me Berlinguer ad arroccarsi. E a tal punto da farsi distanziare sul piano dell’ammodernamento istituzionale, come ha onestamente riconosciuto Piero Fassino nel suo libro autobiografico “Per passione”.

Morto Berlinguer sul campo dello scontro con l’avversario e non più soltanto concorrente socialista, l’anticraxismo proseguì nel Pci con Alessandro Natta e con Achille Occhetto. Al quale non parve vero approfittare nel 1992 della tempesta giudiziaria di Mani pulite per liberarsi del leader socialista, nel frattempo diventato ancora più ingombrante dopo la caduta del muro di Berlino con un rilancio dell’unità socialista scambiato, a torto o a ragione, per disegno di annessione dei comunisti. Si consumò allora la tragedia giustizialista di una sinistra che non si rese conto di spianare così la strada, una volta eliminato politicamente Craxi, a Silvio Berlusconi. Che riempì, anzi occupò il vuoto creatosi con la caduta della cosiddetta prima Repubblica, peraltro attirando un elettorato socialista a dir poco traumatizzato.

L’antiberlusconismo, ricambiato d’altronde da Berlusconi con un anticomunismo ormai in differita, essendosi il comunismo esaurito, divenne una prosecuzione dell’anticraxismo. Massimo D’Alema arrivò a pagargli nel 1995 il tributo di un grosso sdoganamento della Lega allora secessionista di Umberto Bossi, scambiata per una “costola della sinistra” nella illusione di rendere definitiva la frattura creatasi alla fine del 1994 fra Berlusconi e il segretario del Carroccio. Un altro prezzo, inutile anch’esso perché i due tornarono ugualmente ad allearsi, fu pagato dalla sinistra riformando a strettissima maggioranza, nel nome del federalismo perseguito dalla Lega, il titolo V della Costituzione. Che però si tradusse solo in una serie di conflitti di competenza davanti alla Corte Costituzionale cui si è tentato inutilmente di porre rimedio con un’altra riforma: quella bocciata nel referendum del 4 dicembre scorso.

Nel 2007, a dire il vero, con la nascita del Pd, e la fusione tra i resti della sinistra Dc e del Pci, Walter Veltroni cercò di uscire dal vicolo cieco dell’antiberlusconismo cavalcato anche come questione morale, al pari di quanto era stato fatto contro Craxi nel 1992. Nella campagna elettorale anticipata del 2008 il segretario del Pd ricorse anche all’espediente di non chiamare mai per nome Berlusconi, indicandolo solo come “il principale esponente del campo avverso”, e prospettò persino una legislatura costituente. Ma al tempo stesso egli fece l’errore, all’ultimo momento, di sacrificare la cosiddetta vocazione maggioritaria del nuovo partito alla necessità, opportunità e non so cos’altro di un apparentamento col partito giustizialista di Antonio Di Pietro. Da cui il Pd finì, volente o nolente, per risultare condizionato, per cui la legislatura da costituente divenne di lotta esasperata ad un berlusconismo nel frattempo indebolitosi di suo con la defezione di Gianfranco Fini, addirittura con la crisi mediatica dell’allora presidente del Consiglio esplosa nel mezzo di una vicenda giudiziaria pruriginosa che prese il nome di una marocchina minorenne, e infine con l’irruzione di una crisi finanziaria ed economica che per le sue stesse dimensioni e provenienza, da oltre Oceano, non poteva onestamente essere addebitata al solo Berlusconi e al suo ultimo governo.

L’antiberlusconismo si tradusse con Bersani alla guida del Pd nella metafora crozziana del “giaguaro da smacchiare” e poi, in apertura della diciassettesima legislatura, quattro anni fa, nell’inutile inseguimento di un aiuto dei grillini per un governo “minoritario e di combattimento”, piuttosto che praticare la politica delle “larghe intese” con Berlusconi. Alle strette, Bersani preferì mollare tutto - incarico di presidente del Consiglio e segreteria del partito - pur di non accordarsi col Cavaliere di Arcore, che pure aveva appena partecipato alla conferma di Napolitano al Quirinale.

Seguì nell’interregno di Guglielmo Epifani, mentre Matteo Renzi scalava la segreteria del Pd, l’estromissione di Berlusconi dal Senato, dopo la condanna definitiva in Cassazione per frode fiscale, con votazione innovativamente palese, piuttosto che affidare la cosiddetta legge Severino, con la sua contestata applicazione retroattiva, all’esame della Corte Costituzionale, come suggerito anche da Luciano Violante.

La personalizzazione del processo o confronto politico era tuttavia destinata addirittura ad aggravarsi investendo non solo i rapporti esterni al Pd ma anche quelli interni. Vi si è arrivati con l’elezione di Matteo Renzi a segretario del partito, con la sua rapida e obiettivamente brusca scalata a Palazzo Chigi, con le paure create dalle sue riforme e col rifiuto da lui opposto, una volta sconfitto nel referendum costituzionale, alle attese che egli mantenesse la promessa imprudentemente fatta di ritirarsi da tutto, e non solo dalla presidenza del Consiglio.

Che queste attese di natura tutta personale si fossero diffuse nel Pd risultò evidente quando, postosi il problema di un congresso anticipato per una rilegittimazione come segretario, Renzi si vide contestare proprio da Bersani il torto di non voler rendere “contendibile” il partito. Fu la svolta della scissione.

C’è troppo antirenzismo in giro, fu l’allarme lanciato proprio qui, sul Dubbio, all’indomani del referendum costituzionale. Un antirenzismo in funzione del quale temo – ripeto - che sia nato anche quello che ho chiamato all’inizio il “bersangrillismo”, tradottosi nella paradossale promozione del Movimento 5 Stelle, per il suo irriducibile contrasto a Renzi, a partito di “centro” da parte di Bersani. E nella prospettiva di un accordo di governo con Grillo, a parti questa volta invertite rispetto al 2013, cioè con la sinistra chiamata a funzioni di supporto piuttosto che di traino.

Il bersangrillismo, peraltro snobbato anche dal Movimento 5 stelle, per quanto l’ex segretario del Pd abbia appena riconosciuto ai pentastellati anche il merito di formulare proposte persino migliori di quelle del Pd, potrà pure spingere a destra Renzi, non a caso rappresentato come uno che ha già deciso di allearsi con Berlusconi dopo le elezioni col sistema proporzionale, ma potrebbe ancora più rovinosamente tradursi nella tomba della sinistra. Che meriterebbe invece ambizioni migliori, per quanti errori essa abbia potuto fare nella troppo lunga fase - di quasi 37 anni - della personalizzazione della politica.