«Di fronte al caso particolarissimo di un giudicato penale di condanna contraddetto da un giudicato civile e da uno amministrativo entrambi di piena assoluzione, ho ritenuto mio dovere applicare l’articolo 66 della Costituzione votando contro la decadenza». Il senatore Pietro Ichino, nonostante le polemiche, non rinnega la scelta di aver votato a favore di Minzolini. Spiega la sua scelta. E affronta i nodi del difficile rapporto tra toghe e politica, che il caso dell’ex direttore del Tg1 ha comunque messo in evidenza.

Professor Ichino, il 16 marzo scorso lei ha votato in Senato contro la decadenza di Minzolini. Al netto delle polemiche di queste settimane, conferma la sua valutazione?

Ho spiegato in due interventi su Repubblica i motivi di quella mia scelta, molto sofferta. E compiuta con la piena consapevolezza dell’impopolarità a cui sarei andato incontro; ma quella di cacciare un membro del Parlamento per indegnità è una scelta che non può essere dettata dai comuni criteri politici, e tanto meno dal ' furor di popolo'. Di fronte al caso particolarissimo di un giudicato penale di condanna contraddetto da un giudicato civile e da uno amministrativo entrambi di piena assoluzione, ho ritenuto mio dovere applicare l’articolo 66 della Costituzione votando contro la decadenza. Non credo di essere andato contro lo spirito del decreto Severino, e neanche contro la sua lettera: proprio perché esso richiama espressamente l’articolo 66 della Costituzione.

Il caso Minzolini, tuttavia, ha riportato al centro del dibattito politico i rapporti sempre più tesi tra politica e giustizia. Come spiega questo cortocircuito?

Le tensioni tra politica e giustizia ci sono da molto tempo. In questa vicenda, però, non mi è parso che siano queste le tensioni più aspre che si sono manifestate. Ho molto apprezzato il silenzio, su questa vicenda, del presidente dell’Anm; e anche nelle mailinglist dei magistrati, per la parte dei messaggi circolati di cui ho avuto conoscenza attraverso alcuni amici giudici, ho letto solo commenti molto misurati ed equilibrati. Sono state assai più aspre le tensioni interne alla politica, e addirittura interne al partito democratico.

La politica ha qualche responsabilità nelle tensioni con la giustizia?

La politica ha la grande responsabilità di non sapersi quasi mai accorgere delle malversazioni, dove ci sono, prima che vengano scoperte dalla magistratura. Inoltre ha la responsabilità più specifica di non aver saputo regolare in modo appropriato il passaggio dalla magistratura inquirente e giudicante a una carica elettiva politica e il passaggio inverso. La presenza nel collegio che ha condannato Augusto Minzolini di un magistrato che era stato per dodici anni parlamentare dello schieramento opposto era una anomalia che avrebbe dovuto essere evitata. Ma anche una parte della magistratura ha le sue responsabilità.

Quali?

Le scelte di qualche Procuratore della Repubblica, come quella che portò alla richiesta di autorizzazione all’arresto del senatore Azzollini, che per fortuna il Senato respinse, o quella che portò alle dimissioni della ministra Guidi, per poi svanire come neve al sole, fanno pensare più a smania di protagonismo politico che a un esercizio meditato dell’iniziativa giudiziaria penale.

In un recente intervento, Violante ha parlato di «una politica che rischia di perdere il suo primato» e del «codice penale diventato la Magna Charta dell’etica pubblica». Condivide questo timore?

Sì, questo è un rischio reale.

Ieri il senatore Minzolini ha presentato le proprie dimissioni, che aveva annunciato indipendentemente dall’esito del voto sulla decadenza. Accetterà le sue dimissioni?

Vede, questo sì sarà un voto nel quale, a differenza del voto sulla decadenza, sarà giusto che pesino le considerazioni politiche. Qui proprio la considerazione di tutti i risvolti politici della vicenda mi inducono ad apprezzare la scelta del senatore Minzolini e a propendere per l’accoglimento delle sue dimissioni.

A margine, non posso non chiederle un’ultimo commento: da giuslavorista, che giudizio si sente di dare sulle ultime dichiarazioni del ministro del Lavoro Poletti: “Meglio giocare a calcetto che inviare curriculum”?

A me sembra che il ministro Poletti, forse in un modo non felicissimo, abbia detto una cosa giusta; ma abbia sbagliato a non aggiungerne un’altra. La cosa giusta è che l’invio del curriculum, quando non sia in risposta alla ricerca specifica da parte di un’impresa, serve a pochissimo: i fiumi di curricula che arrivano alle aziende e agli studi professionali contengono notizie troppo parziali e per lo più pochissimo rilevanti, omettendone molte che sono invece importantissime per produrre un ingaggio, e che per lo più non possono stare in quel pezzo di carta. È verissimo che oggi in Italia, molto più del curriculum contano le relazioni amicali, parentali e professionali.

E invece che cosa, secondo lei, il ministro non ha detto e avrebbe dovuto dire?

Che questo modo di funzionare del nostro mercato del lavoro è una vergogna. Nei Paesi civili, i figli delle famiglie che non hanno accesso alle reti parentali, amicali o professionali utili per trovare il lavoro hanno a disposizione servizi di orientamento scolastico e professionale capaci di fornire loro l’assistenza indispensabile per compiere le scelte più importanti per il loro futuro professionale. E più in generale tutti i disoccupati, e anche chiunque intenda cambiare occupazione, in quei Paesi, hanno a disposizione servizi capaci di fornire assistenza efficace nel mercato del lavoro. Su questo terreno l’Italia è in grave ritardo.

Per colpa di chi?

Con la riforma del 2015 abbiamo compiuto le scelte legislative giuste: cooperazione su questo terreno tra operatori pubblici e privati, possibilità per il disoccupato di scegliere l’operatore che preferisce, disponibilità dell’assegno di ricollocazione per remunerare congruamente il buon risultato dell’assistenza. Ma questi strumenti incominciano a funzionare solo oggi, con un anno e mezzo di ritardo rispetto all’entrata in vigore della riforma e due o tre decenni di ritardo rispetto agli altri Paesi europei maggiori. Un po’ di colpa, certo, la ha anche il ministro attuale; ma i decenni di ritardo non possono, evidentemente, essere addebitati principalmente a lui.