Che il liberalismo sia nemico dello Stato, a prescindere, è una fake news. Non lo è né teoricamente, né storicamente. È innegabile infatti che lo Stato moderno sorga proprio nel periodo in cui nasce il liberalismo politico: chi, se non il detentore della forza legittima, può infatti garantire quel libero esercizio dei diritti civili, o di libertà, in cui esso propriamente, e direi esclusivamente, consiste? ( È evidente che i diritti politici sono espressione più della democrazia che del liberalismo; e quelli sostanziali o sociali sono propri delle posizioni in vario modo socialiste). Però una cosa è lo Stato, con la sua forza e cogenza, altra lo statalismo; una cosa la garanzia di ultima istanza fornita dall’autorità pubblica al libero gioco delle forze presenti in una società, altra cosa il dirigismo e l’intervento dello Stato dall’alto. A maggior ragione, allorquando si tratta non solo di un intervento di indirizzo o di stimolo ma addirittura diretto, con lo Stato che si fa in prima persona agente sociale o economico ( il cosiddetto ' Stato imprenditore'). Sono distinzioni semplici, quasi banali, ma che pur sorgono spontanee in chi per mestiere o abitudine è spinto a portare al concetto i fatti storici. Pur nella consapevolezza che tanto la storia è viva, concreta, complessa, non riducibile, tanto il pensiero procede per astrazioni o schematismi.

A me queste distinzioni, con tutto il loro portato valoriale, son venute spesso in mente mano mano che procedevo nella lettura di un interessante testo di storia appena pubblicato dall’editore Rubbettino. Ne è autore uno degli studiosi italiani più accreditati e stimati, professore di Storia contemporanea all’Università di Roma ' La sapienza': Guido Pescosolido. Si tratta di una raccolta di saggi ' di occasione', composti in un arco temporale che va dal 1993 ad oggi. Scritti tutti ruotanti attorno a quelli che sono i temi centrali di studio di Pescosolido, ben esplicitati nel titolo del volume: Nazione, sviluppo economico e questione meridionale in Italia ( Rubbettino, pap. 320, euro 18). Le domande che l’autore si pone sono le seguenti: lo Stato unitario ha rappresentato per le ragioni meridionali un progresso, in termini di sviluppo economico, politico, sociale? Il divario di sviluppo fra le ragioni del Nord e quelle Sud si è creato dopo l’Unità o preesisteva ad essa? Le politiche economiche dello Stato unitario sono state giuste o no? E, se sì, lo sono state per tutta l’Italia o per una parte di essa a discapito delle altre? E se, nonostante la loro correttezza le politiche meridionalisti-che non hanno raggiunto gli obiettivi che si erano proposte, tanto che il divario fra Nord e Sud si è mantenuto e spesso allargato, cosa propriamente non ha funzionato? C’erano alternative?

Ovviamente, la risposta che Pescosolido dà a queste domande, anzi il modo stesso in cui pone la questione, sono in continuità con la tradizione del pensiero meridionalistico, precisamente nella sua versione liberal- democratica. Un pensiero che l’autore salva e giustifica in toto e ai cui massimi rappresentanti egli dedica una serie di rapidi profili, fra l’edificante e l’apologetico, nell’ultima e meno convincente parte del libro: Leopoldo Franchetti, Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Salvatore Cafiero, Francesco Compagna, Rosario Romeo, Giuseppe Galasso. Una cultura, quella meridionalistica a cui fa riferimento Pescosolido, che si è sempre opposta alle soluzioni rivoluzionarie e massimaliste, e direi antioccidentali, prospettate dalla cultura marxista, oltre che a quelle solidaristiche di stampo cattolico e persino a quelle liberiste di cui l’esponente principale è stato senza dubbio Luigi Einaudi. Anzi, all’idea di quest’ultimo di affidare, quanto più possibile, alle forze spontanee del mercato o, comunque, di stimolarle e provocarle, la rinascita del Mezzogiorno, Pescosolido tira continue frecciatine in tutto il libro. Egli difende l’interventismo massiccio con cui il problema si è deciso di affrontarlo sin dall’inizio del secolo scorso con le leggi speciali a favore dell’industrializzazione promosse da Francesco Saverio Nitti e poi soprattutto, nel secondo dopoguerra, con l’intervento straordinario ( che però durò più di quarant’anni e che si valse come principale strumento operativo della Cassa per il Mezzogiorno). Lo difende e nel contempo accusa i ' tempi lunghi' che avrebbe comportato il liberismo alla Einaudi nella risoluzione, almeno nei suoi termini più drammatici, della questione meridionale. Il fatto che a 160 anni dall’Unità d’Italia quei ' tempi lunghi' hanno empiricamente mostrato l’inefficacia della politica interventistica, non dovrebbe destare almeno qualche dubbio in chi quell’intervento difende ancora a spada tratta? E a poco vale l’obiezione, che ritorna spesso nel libro, che il progetto era buono ma cattiva la realizzazione, fra manchevolezze della politica e inefficienza e corruzione della macchina burocratica ( che fra l’altro è proprio la statalizzazione a favorire): è un po’ la giustificazione che danno i comunisti duri e puri di fronte ai tanti fallimenti del socialismo realizzato! Ora, per carità, queste mie obiezioni non vogliono essere dogmatiche in senso astratto: la questione va affrontata oggi, e andava affrontata nel passato, con pragmatismo e senso storico. Ed è giusto che lo storico non dia giudizi generali, ma distingua, come Pescosolido ci invita a fare, le diverse fasi e le diverse politiche di intervento. Nel libro di Pescosolido, nonostante questo richiamo al pragmatismo e alla concretezza, ho però ritrovato proprio quella mancanza di spirito critico e quell’ideologismo che egli imputa ai liberisti duri e puri, ma che meglio sarebbe definire anarco- capitalisti ( né Hayek né tantomeno Einaudi lo furono).

Detto questo, il volume è interessante, non solo perché pone alla nostra attenzione importanti domande, ma anche perché tratteggia con indubbia maestria, e limpida scrittura, le linee di fondo della politica e dello sviluppo economico ( che c’è stato ed è stato imponente) non solo del Mezzogiorno ma dell’Italia intera, dall’Unità alla crisi e al relativo declino attuale. Certo, osserva Pescosolido, il divario fra Nord e Sud al momento dell’Unità non era in termini di sviluppo economico tanto accentuato quanto lo è stato dopo. In alcuni casi era addirittura inesistente. Ma, in verità, non si trattava di due diversi livelli di sviluppo, ma di una quasi uguale arretratezza: si era tutti più uguali ma nella comune indigenza e nella povertà. Lo Stato unitario, nato dal Risorgimento, si era perciò posto da subito il problema di portare l’Italia al livello delle altre nazioni europee: a livello politico, civile, economico. Obiettivo che fu rapidamente raggiunto e poi, nel secondo dopoguerra, almeno a livello di economia, addirittura consolidato. In questa corsa allo sviluppo e alla modernizzazione, il Mezzogiorno, pur avendo avuto uno sviluppo quattro volte più grande di quello delle altre zone affacciate sul Mediterraneo, non ha tenuto il passo. Lo si è visto da subito è da subito ci si e illusi che, con un forte drenaggio di risorse, lo sviluppo potesse svolgersi in modo più uniforme nelle diverse aree della penisola. Così non è stato.

Questo secondo obiettivo, al contrario del primo, è fallito. Perché? Ora, se escludiamo i fattori antropologici o persino razziali, che pure qualcuno senza tema del ridicolo ha richiamato, è proprio a quelle politiche promosse dalla cultura meridionalistica e fatte proprie dal governo nazionale che, senza ideologismi ripeto, dobbiamo guardare. Tertium non datur.

Nel primo periodo della vita unitaria, ci ricorda l’autore di questo libro, il governo della Destra storica, seppur in un’ottica fortemente dirigista e ' aristocratica' ( l’élite al potere rappresentava una infima seppur illuminata parte del popolo italiano), adottò una politica fortemente liberista che favorì l’agricoltura, soprattutto meridionale, e che presto dotò l’Italia delle infrastrutture ( ferrovie, strade ordinarie, scuole, edifici) e del capitale necessario al grande salto industriale. Pensare infatti che gli altri Paesi europei potessero essere agganciati al di fuori di un’ottica industrialista, puntando su agricoltura e turismo, ci ricorda Pescosolido, è irrealistico e velleitario. E, in effetti, i primi nuclei di un’industria moderna, pesante e manifatturiera, cominciano a nascere, nel cosiddetto “triangolo industriale” ( Milano- Torino- Genova), a fine Ottocento. Intanto, nel 1887 il governo Depretis aveva abbandonato la politica liberoscambista e introdotto, con la tariffa generale, il protezionismo doganale che sarà proprio dell’Italia fino alla seconda guerra mondiale e oltre ( temperato solo da negoziati e accordi interstatali specifici). Il protezionismo danneggiò fortemente l’agricoltura e aumentò, a partire dal momento in cui fu introdotto, sempre più il divario fra Nord e Sud. Intanto, Nitti, convertitosi al protezionismo dopo una gioventù da liberista, si fece promotore dell’industrializzazione del Sud, con la legge speciale del 1903 e la messa in cantiere, ad esempio, del polo siderurgico di Bagnoli. Fu forse anche grazie alla notevole crescita dell’industria pesante, avvenuta a cavallo di Otto e Novecento, che l’Italia poté sopportare positivamente il peso della guerra mondiale. L’avvento del fascismo autarchico non fece poi che confermare le linee di fondo adottate fino allora dalla politica economica italiana, con una centralizzazione statale ancora maggiore.

Fu su queste basi che, dopo il secondo conflitto mondiale, un Paese in ginocchio poté, anche grazie agli aiuti esterni e a un’accorta politica di alleanze, ripartire da dove si era mostrata più forte. Fino a che, nel giro di qualche lustro, con una crescita spaventosa, il nostro diventò uno dei paesi più ricchi e industrializzati del mondo. Sempre, però, con la solita palla al piede: il Mezzogiorno. Anche questa volta, cioè a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, con ben altre risorse a disposizione rispetto al passato, l’Italia decise di puntare su un intervento massiccio per favorire l’industrializzazione del Sud e avvicinare le condizioni di sviluppo delle varie parti d’Italia. Col risultato, secondo Pescosolido, di aver ridotto, nel corso dei quarant’anni di attuazione di queste politiche ( dal 1951 al 1992), di aver effettivamente ridotto il gap esistente. Forbice che, osserva poi l’autore, ha ripreso ad allargarsi proprio a partire dal momento in cui il drenaggio di risorse è diminuito e si è poi anche arrestato. Fino ad arrivare al livello attuale, che è il più alto di sempre ( ovviamente nel libro sono riportati con precisione i dati statistici che corroborano queste affermazioni). Ora, se è indubbio che, come dice sempre Pescosolido, in una prima fase ( diciamo i primi quindici anni) gli interventi della Cassa non erano stati così segnati in senso clientelare dalla politica come è avvenuto in seguito, è pur vero, a mio modesto avviso, che da ciò non se ne può dedurre che la politica dell’intervento fosse l’unica cosa giusta su cui puntare. Almeno con il giudizio del poi ( ma le cose storicamente si chiariscono sempre alla fine della loro vicenda). Se il Mezzogiorno è pur cresciuto notevolmente nel dopoguerra, non è da sottovalutare che lo ha fatto in un contesto favorevole a tutta l’Italia e appunto con drenaggi di risorse fuori mercato. Quando queste sono cessate, il Sud si è ritrovato senza nemmeno la capacità e la cultura di far da sé. Ed a ben vedere è anche un lascito negativo dell’intervento straordinario. Il quale, anche se Pescosolido non lo dice, è spesso diseducativo da un punto di vista morale, deresponsabilizzante. Non è un caso che ancora oggi il Sud chiede allo Stato quel che lo Stato più non può dargli. Rimboccarsi le maniche e capire che è giunto il momento di far di sé: questo è, sempre secondo me, l’unico modo per sprigionare quelle energie sopite che il Mezzogiorno deve oggi assolutamente ritrovare in sé.