«Siamo stati demonizzato in un modo inaccettabile per un paese civile». Così il senatore Giorgio Tonini, uno dei 19 parlamentari del Partito Democratico che hanno votato contro la decadenza di Augusto Minzolini, bolla le polemiche intorno al “salvataggio” del parlamentare azzurro.

Senatore, vogliamo chiarire perché ha votato no?

Perché io come senatore sono stato chiamato a valutare se sia esistito il cosiddetto fumus persecutionis contro Minzolini. Per farlo, ho analizzato i fatti: un’accusa già di per sé scivolosa, visto che si trattava di una questione aziendale sull’uso di una carta di credito oltre il limite previsto. Poi un’assoluzione in primo grado. Infine la misteriosa sentenza di appello, con una condanna superiore alla richiesta dell’accusa e che sembra fatta apposta per rientrare nella Severino, ignorando qualsiasi attenuante. Una sentenza pronunciata da un collegio in cui siede un magistrato che è stato parlamentare del centrosinistra e quindi avversario politico dell’imputato. A mio modo di vedere, in base a questi elementi il fumus c’è: questo non vuol dire che ci sia la prova che il giudice Sinisi si sia comportato in modo settario contro Minzolini ma il sospetto che ci sia stata una sentenza perlomeno influenzata da ragioni politiche esiste. Quindi ho votato contro la decadenza.

E però Minzolini è stato condannato con sentenza passata in giudicato, qualcosa vorrà pur dire...

Ma come si fa a dire che, siccome questa è la sentenza, noi automaticamente siamo chiamati a metterla in opera? La Costituzione ci assegna il dovere di giudicare e ratificare pedissequamente la sentenza avrebbe significato mancare al nostro dovere. Io mi sono sentito di applicare la massima dell’in dubio pro reo: in una situazione di dubbio meglio assolvere un colpevole che condannare un innocente.

Quindi anche la legge Severino andrebbe eliminata?

Tutt’altro, io sono un sostenitore della legge Serverino. Ci sono delle cose da migliorare ma l’impianto è giusto, io condivido l’idea che chi abbia avuto condanne penali significative e in particolare per reati contro la pubblica amministrazione possa essere escluso dall’elettorato passivo. Di più, rivendico la correttezza dell’istituto della decadenza.

Ma la legge Severino non andava applicata nel caso di Minzolini?

L’opposto. Il mio è stato un voto perfettamente coerente con lo spirito della legge Severino, che rinvia alla procedura costituzionale secondo la quale la decadenza deve essere vagliata dalla camera di appartenenza del parlamentare in carica, ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione. Noi non dovevamo schiacciare un pulsante e prendere ordini da una decisione esterna.

Eppure gli attacchi sono stati feroci...

La penna gentile di Peter Gomez ci ha definiti «maiali» : un linguaggio e una demonizzazione inaccettabili per un paese civile. Chi dice che abbiamo calpestato la legge non capisce è che proprio la legge a chiederci di entrare nel merito. Noi siamo chiamati a giudicare e quindi soppesare i valori in campo: da una parte una norma severa che va applicata e che io difendo, dall’altra la valutazione se la sentenza di condanna è viziata da elementi esterni alla giurisdizione e interni alla politica.

Nel Pd non c’è stato un voto omogeneo, come mai?

Io sono orgoglioso che il mio partito abbia dato libertà di coscienza: gli altri hanno dato un giudizio politico compatto, nel Pd ciascuno ha potuto giudicare. Inaccettabile è invece ridurre tutto a un mercimonio, soprattutto visti i nomi di chi ha votato no: da Mario Tronti a Rosaria Capacchione, che vive sotto scorta da anni perché la camorra l’ha condannata a morte. Lei sarebbe una donna pronta a fare voto di scambio?

Falsi anche i teoremi di una restituzione di favori dopo il salvataggio di Lotti?

Falsi per una ragione molto semplice: i voti di Forza Italia non sono stati determinanti per il no alla sfiducia a Lotti. Se si sceglie una lettura faziosa, però, qualunque comportamento sarebbe stato sbagliato. Se noi 19 avessimo votato contro Minzolini, forse ci avrebbero detto che abbiamo usato due pesi e due misure. Voti di questo genere sono sempre e comunque utilizzabili nella polemica politica.

Significa allora che siamo al definitivo cortocircuito tra magistratura e politica?

Io credo che dovrebbe essere normale che un magistrato che entra in politica non possa poi tornare alla toga e spero che la legge alla Camera metta su questo la parola definitiva. Aggiungo un elemento: questi magistrati, per restare fedeli alla loro vocazione, dovrebbero essere capaci di portare nella politica un plus di equilibrio, saggezza e senso della misura.

Invece?

Invece, in alcuni casi, accade esattamente il contrario. Sembra quasi che i magistrati entrino in politica per appiccare il fuoco. Mi piacerebbe che riflettessero su questo: la dote maggiore che si richiede a un magistrato è l’equilibrio e non lo si può perdere quando si va in Parlamento. Di più, proprio i magistrati dovrebbero aiutare gli altri a contenere la faziosità.