È inutile girarci intorno, la domanda è una sola: Renzi agiva su input del papà? Perchè il resto, nell’inchiesta di Roma su Alfredo Romeo, o è politicamente irrilevante o è lontano dall’essere un’accusa. Tutto sta a provare che l’ex presidente del Consiglio fosse il terminale del presunto attivismo affaristico di “babbo” Tiziano. Se cioè la ricerca di appoggi “al massimo livello politico” da parte dell’imprenditore napoletano è passata per il genitore per arrivare al figlio premier. Se non si prova questo, Renzi è solo sfortunato, potrà pagare dazio in termini di popolarità, potrà persino perdere le primarie. Ma da qui a considerarlo compartecipe di una cricca familiare di corrotti, evidentemente ce ne passa.

La storia che ha portato all’arresto dell’imprenditore napoletano e che vede Tiziano Renzi tra gli indagati risente di un terribile riflesso condizionato: il sospetto che è già condanna. Il sospetto di una cricca familiare all’opera per favorire Romeo è appunto una mera supposizione. Una suggestione, meglio ancora. Basta una suggestione affinché i giornali possano pretendere “una parola di verità” da parte dell’ex segretario- premier? E se invece lui, Matteo, non ne sapesse nulla? Se non fosse in grado di dirla, una parola di verità, per il semplice motivo che conosce al massimo quella affermata dai giornali? E ancora, se fosse vero quanto dicono diversi parlamentari renziani, e cioè che i rapporti tra figliolo e genitore “sono assai critici, per usare un eufemismo, a Rignano sull’Arno lo sanno anche i sassi”, come segnala la Stampa di ieri? Ecco, se ci si trovasse davanti a un romanzo familiare, di un padre che approfitta del potere del figlio per impicciarsi di affari e, forse, guadagnarci sopra, può il figlio in questione pagare un prezzo politico?

No, sostengono i parlamentari a lui vicini. Non può. Le colpe, eventuali, dei padri non possono ricadere sulla discendenza. E intanto però Renzi è pesantemente colpito da questa storia. Paga l’intreccio tra vicende politiche vere e presunti retroscena giudiziari: le sconfitte riportate nel primo dei due ambiti sono amplificate dagli incidenti prodotti nel secondo. La vittoria del No al referendum diventa a questo punto solo l’anteprima di una catastrofe personale più dolorosa. Della scoperta di un torbido intreccio at-È torno a un cognome, che trasforma la politica stessa in romanzo familiare, appunto. È evidente, chi lo nega, che se il sospetto non è verità, non può essere certamente infondato. Ma a pensarci, che Renzi delegasse suo padre a intessere “limacciose relazioni” con imprese golose di appalti pubblici, che conoscesse e incoraggiasse attività penalmente rilevanti del genitore, è francamente ipotesi ardita. Non si può essere certi sia falsa; ma visto che la nuova catastrofe di Renzi nasce dall’idea che l’ipotesi peggiore sia certamente vera, qualcosa che non torna pure sembra esserci.

Tiziano Renzi ha diffuso mercoledì sera un comunicato in cui ricorda che già una volta, a Genova, l’hanno messo in mezzo a un’indagine poi archiviata. La dichiarazione pare sia stata concordata con il figlio: non c’è niente di male. Anche di Romeo si può dire qualcosa di analogo all’autodifesa di Renzi senior. Anche l’imprenditore è segnalato come protagonista di altre inchieste finite nel nulla. Assolto nel 2014 dall’accusa di essere architetto e macchinista di un mega sistema corruttivo a Napoli, disegnato nell’indagine “Global service”. Uscito illeso l’anno dopo da un’accusa di peculato relativa sempre ai rapporti col Comune di Napoli, del cui patrimonio immobiliare, secondo i pm, si era appropriato. In quest’ultimo caso gli hanno pure dovuto restituire 25 milioni.

Ora pare che il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo abbia in mano prove solidissime di una “corruzione strutturata” messa in piedi da Romeo con il dirigente Consip Marco Gasparri. Fino all’ultima anticipazione: l’ad della stessa centrale di acquisti, Luigi Marroni, ha dichiarato ai pm di Napoli, iniziali titolari dell’inchiesta, di aver ricevuto pressioni da Verdini e da Carlo Russo, l’imprenditore amico dei Renzi, su un appalto da 2 miliardi e 700 milioni. La famosa torta a cui ambiva Romeo.

Il resto è fermo allo stato di pulviscolo indiziario: frammenti, come i foglietti strappati e reincollati dai carabinieri. Su uno c’era scritto “30 T”. Si dà per scontato che voglia dire “30mila euro a Tiziano Renzi”. Se non fosse una tragedia verrebbe da ridere. Come può essere considerata una prova? E come è possibile trarre da un presunto pizzino tangentizio le conseguenze di una catastrofe politica per Renzi figlio? Tutto inspiegabile, paradossale ma in fondo scontato a riguardare la storia dell’informazione giudiziaria degli ultimi vent’anni. Resta Alfredo Romeo, certo. Figura discutibile nel senso che vale la pena discuterne: che consideri prioritaria l’attività di lobbing è un dato di fatto.

I rapporti, le relazioni, le cene in trattoria sono per lui la chiave dell’impresa. È l’unico uomo d’affari d’Italia a pensarlo? È il solo ad avvicinare persone più o meno influenti per essere favorito in qualche commessa? Pare di no. Sarebbe il caso di soffermarsi su questa sua fissazione. E cioè sul fatto che gli affari con la pubblica amministrazione si fanno solo se parli e persuadi e blandisci le persone, non basta mai l’offerta competitiva. Sì, questo è un suo carattere. Si deve capire quali reati avrebbe veramente commesso spinto dalla sua convinzione. Siamo alle indagini preliminari. Nel nostro sistema valgono zero finché non se ne discute in un’udienza e poi eventualmente in un dibattimento vero e proprio. Siamo lontani. Eppure per molti la fine politica di Renzi non solo è vicina: è già nei fatti.