Nel trattare le delicate questioni del fine vita, in queste ore, si citano i casi di Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro… Sono vicende, tra loro diverse. In comune hanno un enorme carico di sofferenza, e un impegno civile e politico, per la conquista di diritti negati. Fino a quando una vita è degna di essere chiamata tale?

Ha chiesto di poter scegliere di morire senza morire, Dj Fabo, nell’appello rivolto giorni fa al presidente della Repubblica. E ieri, in una clinica svizzera, ha dato pratica esecuzione alla sua volontà di porre fine a una sofferenza per lui insopportabile, inutile, senza speranza.

Nel trattare le delicate questioni del fine vita, in queste ore, si citano i casi di Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro… Sono vicende, tra loro diverse. In comune hanno un enorme carico di sofferenza, e un impegno civile e politico, per la conquista di diritti negati. Al tempo stesso sono percorsi e storie diverse; e il primo dovere è quello di fare chiarezza, non contribuire a sollevare polveroni a beneficio di quanti hanno tutto l’interesse a confondere e creare confusione.

Chiariamo, allora, che non si sta parlando di eutanasia. Qui si parla del diritto di ciascuno di noi di poter stabilire fino a quando una vita è degna di essere chiamata tale; se appartiene alla sfera dei diritti anche quello di non soffrire, quando questa sofferenza è disperazione senza scopo e ragione; se rientri tra i diritti di ciascuno la facoltà di “liberarsi” di un corpo vissuto come un’opprimente involucro estraneo: il diritto a una liberazione simile a quella invocata da papa Giovanni Paolo II: «Lasciatemi tornare alla casa del Padre» ; volontà giustamente rispettata.

Dj Fabo in piena, lucida, coscienza, ha espresso la sua volontà: non voleva più vivere prigioniero di un corpo che lo paralizzava, preda di un buio infinito e senza speranza. Ha scelto di morire in una clinica svizzera; forse ha pensato che lì la sua sofferenza sarebbe terminata prima, forse si sarà sentito più “garantito”; forse avrà pensato che in questo modo avrebbe maggiormente “illuminato” una questione di cui si preferisce, nel “Palazzo” non discutere; la si elude, la si ignora. Recentemente un malato di Sla, Dino Bettamin, ha chiesto di essere profondamente sedato, di non essere più risvegliato, e infine, senza soffrire, è morto. La sua volontà è stata pienamente rispettata e non poteva che essere così.

Anche per Piergiorgio Welby si è proceduto a sedazione; successivamente l’anestesista Mario Riccio ha provveduto a staccare il respiratore che lo teneva in vita meccanicamente, e Piergiorgio ha potuto “liberarsi” senza soffrire. Il professor Mario Sabatelli, primario del “Gemelli” di Roma ci ricorda che il rifiuto delle cure non è eutanasia ma «una questione di buona prassi medica. Già oggi la legge, la Costituzione e il codice deontologico lo consentono.

Anche il Magistero della Chiesa è chiaro: non c’è un diritto di morire ma sicuramente un “diritto a morire in tutta serenità, con dignità umana e cristiana”». La decisione, spiega il professor Sabatelli, spetta solo al malato: «Può valutare se la ventilazione meccanica è trattamento proporzionato alla propria condizione e quindi non lesivo della propria dignità di vita. Chi accetta ha diritto ad essere assistito a casa, aiutato dalle istituzioni. Chi rifiuta ha diritto a morire con dignità».

Questo, insomma, è un punto fermo. Il problema si pone quando il paziente non si trova più nella condizione di esprimere la sua volontà, quando con l’aggravarsi della sua condizione, pur restando lucido non può più comunicare. Qui, sì, si registra una carenza tutta da colmare.

Occorre che le disposizioni anticipate di trattamento, lasciate quando si è in condizioni di farlo, siano rispettate quando questa volontà non si può più esprimerla. E’ soprattutto qui, il vuoto legislativo.

Eutanasia, fine vita, accanimento terapeutico non sono la stessa cosa, sovrapponibili. Ognuno di questi termini, nel concreto, assume significati diversi, come diversi sono i protagonistivittime, pur se accomunati da identica sofferenza e desiderio di vivere ( e morire) in dignità. Uno degli scopi dell’Istituto di cui sono presidente è appunto questo: creare occasioni e momenti di discussione, confronto, dibattito – che la quotidiana cronaca ci dimostra essere quanto mai urgenti e necessari – per affrontare queste tematiche: delicate, che richiedono attenzione, sensibilità, senso di responsabilità. Quella attenzione, sensibilità e senso di responsabilità di cui larghissima parte della classe politica sembra non possedere. Eppure, come già accaduto per il divorzio e l’aborto si ha ragione di credere che il paese che siamo sia molto più “avanti”, più maturo e consapevole di quanto si creda.