Iniziamo dai dettagli, anzi, dal Bagaglino post- comunista. L’ex inviato delle “Iene” Enrico Lucci che, in uniforme da Stalin maresciallo dell’Urss, implora Bersani di rinunciare alla scissione e, per estensione, all’opposizione interna tutta, è materiale retorico storicamente avariato. Date un po’ di potere a Matteo e uno straccetto rosso a Max

Umanamente parlando, Lucci sembra tuttavia farsi carico dell’inquietudine dell’antico militante del Pci- Pds- Ds, sorta di Vecchia Romagna del centralismo democratico che faceva appello all’unità interna al partito anche a dispetto della più suicida delle politiche. Peccato per lui, quel genere di figura accorata esiste ormai soltanto nelle vignette di Staino, dove campeggia l’amico Molotov. Ma forse, visto il capofitto ultimo de l’Unità affidata da Matteo proprio al conterraneo Sergio, neppure laggiù. Alberi pizzuti di una narrazione finita. In buona sostanza, ci troviamo ormai nel paesaggio che il poeta definisce “dopostoria”, dove nessuno, pena il ridicolo, è più autorizzato a vestire i verbali della C. C. C. ( leggi: Commissione centrale di controllo).

E poi, tecnicamente parlando, se c’è da individuare uno “Stalin”, in questa nostra storia semiseria, si tratta certamente del segretario, per la sua assenza di visione complessiva, un politico semmai preoccupato unicamente degli “affari amministrativi”, cioè perpetuare il proprio potere, anche a prezzo di un’arroganza puntuta che esclude la discussione collegiale, la sintesi: l’assemblea dei giorni scorsi conclusa senza una vera replica ne è la prova del nove. D’altronde, come raccontano gli ex ospiti di Botteghe Oscure sopravvissuti nelle stanze nuove di via del Nazareno, Renzi e i suoi hanno provveduto a fare sistematica, spicciola, epurazione di coloro che un tempo si chiamavano “compagni” tra loro.

La pura e semplice verità? Chi dovesse riconoscersi nelle ragioni comunque sconocchiate della sinistra ( socialdemocratica, cioè perfino con il vecchio caro Tanassi nel cuore, moderata, addirittura già “migliorista”) per Matteo Renzi e la sua evidente assenza di vera progettualità, che non sia l’occupazione del potere tra affaristi e standisti glamour pronti a offrire merci banali reificate da un nuovo “packaging” da ceto riflessivo o perfino ex berlusconiano, costui prova sincera siderale lontananza politica, come si conviene a un corpo culturalmente estraneo. Il minimo della constatazione oggettiva, visto che molti consensi ( dunque, voti) sono trasmigrati sul pianeta Saturno dell’astensione, e sono le stesse persone mai più sfiorate dai timori da circolo Fgci di Enrico Lucci e Diego Bianchi Zoro.

Nessuno potrà riportarli ad applaudire un aborto politico che ha dato prova di affermare le categorie blairiane del Successo individuale – Renzi e i suoi sodali nello specchio delle loro brame, e a seguire il sempreverde Chicco Testa a cavallo sulla riva di Chiarone - in luogo del Lavoro, cioè il diritto alla qualità della vita. Perché di fronte a una sinistra che mostri la pretesa di fare la destra, allora è assai meglio riconoscersi direttamente sull’originale: caviale nero in luogo del lompo rosso.

Che dire poi dell’accoramento di Veltroni in assemblea? Non può fare altrimenti, da una parte deve rivendicare la sua creatura ( il Pd), dall’altra sa che Massimo D’Alema gli ha finalmente bruciato ponti e navi alle spalle come non mai, dunque in cuor suo spera che Matteo Renzi resista politicamente, anche in questo caso per i futuri successi personali, per nuovi riscontri che gli diano la sensazione d’ancora esistere tra Dagospia e le conversazioni dei poteri capitolini correnti: la presidenza Rai o, perché no, il Quirinale come candidato di mediazione, doroteo. E se fosse vero ciò che le quinte colonne del Pd affermano? Renzi è ormai un cadavere politico, “bollito” ( sic). A quel punto, con lui soccomberebbe anche Veltroni, salvo rinascere come caratterista, metti, per Paolo Virzì e Francesca Archibugi nel remake di "L’ultima neve di primavera", interpretando una suora infermiera vista di schiena.

Armata Brancaleone o museo delle cere, notte dei morti viventi, gabinetto del dottor Caligari o riscossa delle mummie, ciò che va imputato alla minoranza interna è di non aver saputo creare una nuova giovane classe dirigente – Speranza? Per carità! – capace di contrastare la mutazione genetica operata da Renzi, là dove non erano riusciti i Cuperlo e i Civati, e i Fassina. Magari rispondendo nel contempo anche ai suoi metodi spicci e al suo autoritarismo, e forse in questa incapacità dell’ultima generazione post- comunista ha pesato il riflesso del centralismo democratico, l’incapacità di ribellarsi ai padri e ai fratelli maggiori. Salvo poi ritrovarsi annullati dal “gringo” già democristiano.

E adesso siamo qui a dover riflettere sulle parole di chi non senza ragioni segnala che i Belfagor della minoranza - D’Alema, Bersani, Epifani, Rossi, Emiliano, e perfino Prodi, il cui bisillabo appena sussurrato porta voti al M5S - farebbero bene togliere il disturbo, e non puoi davvero nulla obiettare a chi così afferma; ma il problema della necessità di un atollo dove sia possibile far sventolare lo “straccetto rosso” del riscatto sociale e della vita da cambiare, comunque resta, perché senza simbolico non esiste il viaggio.

Quanto alla narrazione renziana finora, a dispetto dei suoi protagonisti, semplificando si è preoccupata soprattutto di indicare Maria Elena Boschi come invidiabile modello femminile, come “la più bella della festa”, un po’ come Enrico Berlinguer negli anni Cinquanta fece con santa Maria Goretti, “esempio di moralità e spirito di sacrificio” ( sic). Ciò che verrà, se mai verrà, dovrebbe essere altro sia dall’aureola sia dalla cura delle sopracciglia.