Noi vecchi cronisti della politica abbiamo la sciagurata abitudine o tentazione di paragonare ciò che accade e che ancora possiamo raccontare a ciò che abbiamo già visto e riferito in passato. Forse non è giusto perché nulla mai si ripete nelle stesse circostanze. E le circostanze sono un elemento non certo trascurabile nella valutazione delle cose e degli uomini. Ma poi si finisce sempre per cadere, ripeto, in tentazione.

Ci sono caduto qualche giorno fa nella buvette di Montecitorio col povero, incolpevole Guglielmo Epifani, mandandogli di traverso - temo - un caffè che ha improvvisamente interrotto di gustarsi per correre letteralmente via.

Ho dunque chiesto al povero Epifani, esponente tanto autorevole e fidato della corrente o area di Pier Luigi Bersani da essere poi intervenuto a suo nome nella discussione di domenica all’assemblea nazionale del Pd sulla convocazione del controverso congresso, che cosa avrebbe detto da giovane, anzi da giovanissimo, studente di filosofia non so in quale Università, se il contrasto cronico fra i due cosiddetti cavalli di razza della Dc Amintore Fanfani ed Aldo Moro - fosse sfociato nella scissione del principale partito italiano. Attorno al quale gravitavano gli equilibri politici del Paese come più di quarant’anni dopo, fatte le debite differenze di natura sociale e politica, interna e internazionale, sarebbe accaduto al Partito Democratico fondato nel 2007 fondendo i resti della Dc e del Pci.

Già al nome di Fanfani l’ex segretario generale della Cgil, ma anche ex segretario del Pd, sia pure di transizione, fra le dimissioni di Pier Luigi Bersani e l’elezione di Matteo Renzi nel 2013 con la doppia procedura del congresso e delle primarie, mi ha guardato storto.

Ho avvertito la sensazione che Epifani mi volesse contestare il paragone, implicito nella mia domanda, tra Fanfani e Renzi, per quanto toscani e alquanto decisionisti entrambi, diciamo la verità. Ma si è forse trattenuto dal farlo per non dover difendere Fanfani, che nella cultura italiana di sinistra è stato visto prevalentemente a destra, a dispetto dei suoi trascorsi dossettiani, e della famosa comunità “del Porcellino”, per la sua infelice e comunque sfortunata guida della campagna referendaria contro il divorzio nel 1974.

Epifani si è perciò limitato a difendere in qualche modo la Dc rispetto al Pd nella versione e guida renziana. «La Dc - mi ha detto - aveva un sistema diverso e forte di regole». A questo punto sono stato io a trattenermi dalla tentazione di ricordargli che nella Dc si era troppo a lungo tollerata, anche ai tempi di Fanfani, l’abitudine di fare i congressi usando la manica larga con i tesseramenti, per cui le correnti si misuravano spesso con i morti che continuavano a votare con i vivi. Mi sono trattenuto non tanto per non mettere in imbarazzo Epifani ma per rispettare quelle volte in cui mi capitò di votare per la Dc apprezzando la linea di Moro, prima che l’unificazione socialista, peraltro destinata a fallire, non mi avesse fatto cambiare scelte o abitudini elettorali.

Ho preferito perciò ripiegare, con Epifani, su un altro argomento o motivo di riflessione sulla “enormità”, secondo me, di una scissione da “sentimento”, come una volta è sfuggito di dire a Massimo D’Alema parlando dei metodi renziani di gestione del partito, e non solo di linea politica. E ho cominciato a ricordare all’ex segretario del Pd una vicenda risalente alla fine del 1971, quando lui aveva poco più di 21 anni e mezzo, come ho potuto rilevare consultando sull’elenco dei deputati i suoi dati anagrafici: le elezioni presidenziali che portarono al Quirinale Giovanni Leone. Ma Epifani mi ha interrotto bruscamente, lasciando a metà la tazzina di caffè e correndo spero - ad un appuntamento dimenticato, con un gesto comunque infastidito di saluto. Ebbene, quella vicenda continuo a ricordarla o raccontarla a voi da testimone.

La Dc, guidata in quel momento dal fanfaniamo Arnaldo Forlani, di cui era vice segretario Ciriaco De Mita, della corrente di sinistra chiamata “Base”, entrambi protagonisti di un convegno all’insegna del cambio di generazione svoltosi a San Ginesio, ridente località delle Marche ora purtroppo devastata dal terremoto, arrivò all’appuntamento parlamentare per la successione a Giuseppe Saragat con la candidatura di Fanfani. Che furbescamente si era collocato in una posizione che riteneva vantaggiosa: quella di presidente del Senato. Moro, il suo storico antagonista nella Dc, era ministro degli Esteri di un governo di centrosinistra guidato da Emilio Colombo.

Per ben 6 votazioni, fra il 9 e il 12 dicembre, i parlamentari e i delegati regionali democristiani scrissero sulle loro schede il nome di Fanfani senza riuscire ad eleggerlo: né da soli né con l’appoggio di altri. Che poi erano sulla carta solo i repubblicani, essendo i socialdemocratici impegnati a sostenere la conferma di Saragat e i socialisti e i liberali defilati votando i loro candidati cosiddetti di bandiera: rispettivamente, Francesco De Martino e Giovanni Malagodi.

Seguirono, fra il 13 e il 14 dicembre, quattro votazioni di cosiddetta decantazione, con i democristiani costretti ad astenersi per non far più contare i loro “franchi tiratori” e convincere Fanfani a rinunciare spontaneamente alla candidatura. Un solo democristiano si rivoltò alle direttive votando dichiaratamente per Moro: l’ex presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.

All’undicesima votazione, il 15 dicembre, Fanfani pretese e ottenne dal suo partito un ultimo tentativo sul proprio nome. Ma non riuscì a raccogliere più di 393 voti: 112 meno dei 505 necessari per l’elezione, pari alla maggioranza assoluta dell’assemblea costituita dai deputati, senatori e delegati regionali. “Nano maledetto, non sarai mai eletto”, era stato d’altronde già scritto sulla scheda da un “franco tiratore”.

Si passò allora nella Dc alla ricerca di un altro candidato con i soliti incontri al caminetto e infine con la riunione congiunta dei gruppi parlamentari, mentre nell’aula di Montecitorio si svolgevano votazioni inutili, alle quali i democristiani dovevano partecipare astenendosi per non essere tentati di fare di testa loro, votando magari per il ministro degli Esteri. Dal quale i comunisti erano attratti, per quanto l’indimenticabile Giorgio Amendola avvertisse i cronisti nel Transatlantico che «tutti ci hanno chiesto voti, fuorché Moro».

All’assemblea congiunta dei “grandi elettori” democristiani, svoltasi la sera del 21 dicembre, il segretario del partito Forlani si presentò con una sorpresa agli occhi e alle orecchie dei suoi colleghi di corrente e dei “dorotei” di Mariano Rumor e Flaminio Piccoli: la contestazione degli umori contro Moro. «E’ un uomo che è stato più volte ministro, per quattro anni segretario del partito, per altri quattro presidente del Consiglio, è oggi il ministro degli Esteri: non vedo una sola ragione per la quale non potrebbe essere degnamente il nostro candidato alla Presidenza della Repubblica», disse Forlani.

Moro non era presente all’assemblea. Molti applaudirono, molti altri rimasero immobili. Non restava che votare, a scrutinio naturalmente segreto. Ma qualcuno osservò che s’era fatto ormai troppo tardi e propose di votare l’indomani.

Forlani commise l’errore di non avvertire il pericolo di una manovra contro di lui. Ma neppure di questo i fanfaniani gli furono grati. Vidi personalmente, alla fine della riunione, il deputato di Taranto Gabriele Semeraro - un omone alto così - avvicinarsi al segretario e dirgli: “Traditore”. Pallido, Forlani tirò dritto.

Nella notte chi si voleva muovere si mosse, alle spalle del segretario del partito. E concordò con i liberali, i socialdemocratici, i repubblicani, qualcuno disse anche con i missini, non con i socialisti, e tanto meno con i comunisti naturalmente, l’appoggio alla candidatura di Giovanni Leone. Per non farla molto sporca dorotei e fanfaniani proposero poi all’assemblea congiunta dei gruppi parlamentari e dei delegati regionali tre nomi Rumor, Piccoli e Leone avvertendo che sull’ultimo era stata accertata la disponibilità dei liberali, repubblicani e socialdemocratici a votarlo.

Carlo Donat- Cattin invece propose Moro, dopo avere inutilmente cercato di convincerlo a farsi votare senza aspettare la designazione del partito, mentre i “grandi elettori “dello scudo crociato sfilavano davanti alle urne di Montecitorio senza deporre la scheda, cioè astenendosi. «Per fare i figli bisogna fottere», aveva detto Carlo agli amici nei corridoi della Camera per spiegare la sua posizione, lamentandosi del rifiuto oppostogli da Moro a rompere la disciplina e lealtà di partito. Quella mattina, mentre si votava nei gruppi democristiani, Moro non si fece vedere da nessuno.

Rimase orgogliosamente chiuso nell’ufficio del consigliere della Camera Tullio Ancora, un amico al quale, a furia di ammirare Moro, dicevano per scherzo i cronisti, era venuto un ciuffo di capelli bianchi sulla fronte, come all’ex presidente del Consiglio. «Se si fosse abbassato a stringere qualche mano in Transatlantico - mi disse poi il comune amico Nicola Lettieri ce l’avremmo fatta».

Moro perse lo scrutinio con meno di cinque voti di differenza su Leone, per il quale si votò poi in aula il 23 dicembre, alla ventiduesima volta dall’inizio della corsa al Quirinale. Ma gli mancò un solo voto - quello di un deputato monarchico campano arrivato in aula troppo tardi ai 504 necessari per l’elezione.

Fu annunciata un’altra votazione, la ventitreesima, per il giorno dopo, vigilia di Natale.

Quella mattina passai dalla casa di Lettieri, vicino Ponte Milvio, per andare insieme alla Camera e farmi raccontare come fosse andata una riunione di corrente svoltasi la sera prima. Mi disse di avere invitato i suoi colleghi a votare scheda bianca per protesta contro la “slealtà” dei dorotei e dei fanfaniani. Che avevano peraltro mandato Rumor a casa di Moro per manifestargli il “dispiacere” di non averlo potuto appoggiare a causa del significato politico “improprio” che aveva finito per assumere una sua candidatura, troppo gradita al Pci. «Mi avete confezionato un abito su misura», aveva risposto freddamente il ministro degli Esteri.

Tu oggi che farai?, chiesi a Nicola mentre prendevo un caffè offertomi dalla moglie.

«Naturalmente voto contro», mi rispose. Come se Moro lo avesse sentito, squillò il telefono. Dall’altro capo del filo c’era proprio lui, il ministro degli Esteri, che disse, testualmente e forte, tanto da sentirlo bene anche io: «Nicola, ti raccomando. Si vota tutti Leone perché lui non c’entra con quello che è stato fatto contro di me. Non fate scherzi». Leone quella mattina fu eletto con 518 voti, 13 in più dei 505 necessari. E fu proprio lui dopo sei anni e mezzo, al Quirinale, anche a costo di doversi poi dimettere da presidente della Repubblica, sia pure per altri motivi ufficiali, a raccogliere gli appelli di Moro dalla “prigione” delle Brigate rosse perché venisse salvato dalla condanna a morte comminatagli dai terroristi.

In particolare, Leone predispose la grazia per Paola Besuschio, che era nell’elenco dei 13 detenuti di cui le Brigate rosse avevano reclamato lo scambio con il loro ostaggio. Purtroppo con una tempestività della quale Leone non si diede pace sino alla morte, i terroristi uccisero Moro la mattina del 9 maggio 1978, poche ore prima che il capo dello Stato potesse firmare la grazia. E Fanfani - sì, lui, il vecchio antagonista di Moro - potesse parlare alla direzione nazionale della Dc per rimettersi alle decisioni autonome del presidente della Repubblica.

La Dc non conobbe scissioni da risentimento o dissenso fino a quando il sistema politico non fu terremotato dal giustizialismo. E non ne conobbe neppure l’altro, grande partito: il Pci. Dove Pietro Ingrao nel 1969 rimase disciplinatamente nel partito quando i suoi compagni del Manifesto ne furono espulsi. E rimase anche nel Pds- ex Pci quando Cossutta se ne andò per creare Rifondazione Comunista. Egli restò, sia pure ancora per poco, in quel “gorgo” evocato da Gianni Cuperlo domenica scorsa davanti all’assemblea nazionale del Pd per cercare di trattenere dalla scissione le altre minoranze, pur essendo anche lui critico con Renzi.

Non pensarono mai ad una scissione nel Pci neppure i cosiddetti miglioristi di Giorgio Napolitano ed Emanuele Macaluso quando dissentirono da Enrico Berlinguer sui rapporti con i socialisti e sulla “diversità” dei comunisti orgogliosamente rivendicata dal segretario, sino al rischio di un pericoloso isolamento.