I miracoli ogni tanto avvengono davvero: però raramente. Per evitare la scissione del Pd, poi, ci vorrebbe un miracolo di quelli grossi: forse succederà, però non è probabile. Matteo Renzi è contentone, come francamente ammesso da un desolato Delrio nel fuori onda che campeggiava in rete. E’ convinto che il danno sarà limitato. Però non è che di solito le sue previsioni ci piglino, neppure di striscio. La scissione sarà una cosa seria.

Il gruppo di parlamentari che, salvo provvidenziali interventi divini, lascerà il Pd nei prossimi giorni è fondamentale sul piano politico e simbolico più che su quello dei voti. Bersani, piaccia o non piaccia, è un ex segretario, non l’ultimo arrivato, e alcune decine di parlamentari peseranno anche qualora si riveli giusta l’analisi dell’attuale segretario, secondo la quale di voti ne razzieranno pochi. Di quel delicato versante, però, si sta già occupando, e non da ieri, Massimo D’Alema, uno dei pochissimi che ancora sappia come si organizza una scissione. Aspettando il momento giusto, l’ex leader coi baffetti ha intrecciato rapporti su e giù per la penisola. Soprattutto “giù”: nel Sud, in Calabria, in Puglia, in Sicilia. Si è rivolto agli amministratori e ai capibastone locali, quelli che portano voti. Ha lasciato perdere il teatro romano per battere i celebri “territori”. La nascita del nuovo partito non sarebbe possibile senza una corposa dipartita dei gruppi dirigenti, ma lo sarebbe ancora meno senza la rete di alleanze e accordi costruita in questi mesi D’Alema.

La creazione di una sponda credibile è fondamentale anche per portare a termine quello che in tutta evidenza è il disegno dalemiano: non limitarsi alla scissione traumatica ma trasformarla in emorragia. Dato il carattere e la concezione di partito che albergano in Renzi non ci vuole molto a indovinare perché anche molti di quelli che resteranno con lui si lasceranno comunque aperta la possibilità di ripensarci nei prossimi mesi. Prima di tutti gli antichi “dalemiani”, come Anna Finocchiaro o Nicola Latorre, che già ora non nascondono lacerazioni ma che probabilmente non sceglieranno fino a che il quadro non sarà più chiaro, ma anche esponenti di primo piano del dissenso come Gianni Cuperlo, che per ora è deciso a non seguire gli scissionisti ma le cui scelte future dipenderanno da cosa diventerà il partito di Renzi una volta depurato dalle residue opposizioni e da quali alternative concrete saranno a disposizione. Lo stesso ministro della Giustizia Andrea Orlando, che si configura oggi come la principale alternativa potenziale a Renzi, dovrà e potrà fare i conto solo quando il panorama oggi avvolto dalla nebbia sarà ben definito.

Però circoscrivere il quadro al solo Pd è un caso di miopia grave. Il terremoto che si prepara coinvolgerà una fascia di elettorato più vasta, quella che in un modo o nell’altro insiste nel ritenersi e nel considerarsi di sinistra. E’ un bacino potenzialmente molto ampio. Comprende quelli che hanno votato Pd ma credendo pochissimo nel ragazzo di Rignano, quelli che hanno scelto Sel o il Prc, quelli che in mancanza di un’offerta credibile hanno ormai fatto il callo all’astensione, quelli che hanno votato per M5S senza crederci troppo e che alle prossime elezioni saranno senza dubbio frenati dalla corsa a destra dell’ex comico e dallo spettro di una sua alleanza post- elettorale con Salvini.

D’Alema guarda esplicitamente a quell’area. Non a caso insiste sulla necessità di una Assemblea programmatica non del Pd o della sua minoranza ma dell’intera sinistra alternativa al renzismo. Renzi, però, non si è fatto cogliere impreparato. L’accordo con Giuliano Pisapia, stretto ancora prima del referendum del 4 dicembre, aveva come obiettivo proprio sbarrare la strada al progetto di D’Alema mettendo in campo un soggetto “di sinistra” ma pronto ad allearsi con il Pd: una sponda “antirenziana” da portare in dote a Renzi.

L’ex sindaco di Milano si è prestato perché si è convinto, o forse perché i suoi consiglieri con in testa Gad Lerner lo hanno convinto, di poter per questa via presentarsi come alternativa allo stesso Renzi come candidato a palazzo Chigi. La campagna sul “nuovo Prodi” di questi giorni è eloquente, e in fondo anche Prodi non aveva alle spalle una sua forza reale. Certo, proprio questo particolare è alle origini del fallimento sia dell’Ulivo che dell’Unione dopo le vittorie elettorali del 1996 e del 2006. Particolari ai quali nella politica italiana non guarda nessuno.

La principale forza alla sinistra del Pd, la Sel di Nichi Vendola, inizia proprio oggi il suo congresso di trasfromazione in Sinistra italiana a Rimini. Il progetto di Vendola e di Nicola Fratoianni è dar vita a un soggetto autonomo, che potrebbe ( per usare un eufemismo) poi dar vita a una lista comune con il partito di D’Alema. Solo che nel caso di Sinistra italiana la scissione è arrivata ancora prima della fondazione. Una parte sostanziosa del gruppo dirigente e dei parlamentari, incluso il capogruppo alla Camera Arturo Scotto e il vicepresidente del Lazio Smeriglio, diserteranno le assise. Una sorta di stand- by pre- scissione in attesa, anche in questo caso, di capire cosa succede. Una parte dei pre- scissionisti vorrebbe infatti rafforzare immediatamente il “campo” di Pisapia. Un’altra parte, forse più corposa, in caso di scissione sceglierebbe invece D’Alema. Con il progetto di allearsi poi con Pisapia e di lì tornare a Renzi, secondo uno schema cervellotico ma tipico della sinistra italiana.

Tutti questi calcoli e questi ragionamenti sono tuttavia astratti, e lo resteranno fino a quando non si saprà se la legge elettorale premierà le liste, nel qual caso di alleanze non si parlerà più, o le coalizioni, il che riaprirebbe invece tutti i giochi. La realtà, al momento, è che la sinistra non ha idea di come affronterà le urne dopo l’estate o più probabilmente dopo capodanno. Gli estremi per sprecare un’occasione storica ci stanno tutti. Ma per una volta, almeno, non è detta l’ultima...