Corrono come due treni sullo stesso binario, renziani e antirenziani del Pd. Messa così, lo scontro a due giorni dall’Assemblea nazionale appare inevitabile. La minoranza di sinistra avverte: «A quell’appuntamento ci saremo anche noi». E intanto preparano un incontro sabato a Roma per mettere a punto una linea comune. La maggioranza ha deciso: il presidente del partito, Matteo Orfini, come da statuto sarà il reggente della fase congressuale, mentre Renzi annuncia una convention per il 10 marzo al Lingotto. In tanti provano a mediare in un contesto sempre più sfilacciato. Il Guardasigilli Andrea Orlando si adopera per impedire lo strappo. Ma anche dentro la sua corrente le divisioni non mancano. Se il Pd si scinde, fare la riforma elettorale diventa più difficile e le elezioni a breve diventano lo scenario più attendibile.

Corrono come due treni sullo stesso binario, renziani e anti renziani del Pd. Rendendo in tal modo lo scontro inevitabile e l’atteggiamento che l’accompagna è lo stesso delle coppie che si separano dopo anni di litigi: paura del futuro che arriva, soddisfazione per un passato che si chiude. Corre Matteo Renzi verso il congresso, sicuro che senza il fardello della minoranza perennemente oppositiva sulle spalle, procederà più leggero e più veloce verso il traguardo delle elezioni. Che non sarà una rivincita ma nella mente di chi la prepara certamente gli assomiglia assai.

Corre la minoranza bersaniana verso l’addio, e fa gioco di staffetta tra la lepre D’Alema, la tartaruga gigante Emiliano che si sente nei panni di un redivido Zenone capace di sbriciolare il piè veloce Achille, e la gazzella Speranza. La gara è a chi risulta più solerte a lasciare in mani altrui il cerino della responsabilità della rottura. Corrono Matteo Orfini e Andrea Orlando, dioscuri della corrente dei Giovani turchi che con empatia e perfetto sincronismo imita la casa madre e si scinde anch’essa. Matteo ( l’identico nome non è una casualità bensì un comune destino) appaiato al leader e proteso verso la reggenza congressuale; Andrea con la barra verso la segreteria, tanto dritta sul bersaglio quanto circospetta nei sostegni: non assieme ai laudatores di Renzi, mai con gli scapigliati della minoranza.

Corre Dario Franceschini nella spola tra i Beni culturali e il Quirinale. Consuma le suole e dà frenetico fondo alle energie nello sforzo di tappare i buchi del rapporto tra le varie anime pd spandendo la tela della sua mediazione. Ma è come svuotare il mare con il cucchiaino. Corre - ma felpatamente of course - anche Paolo Gentiloni, trascinando il suo governo su per la salita che da palazzo Chigi porta a Montecitorio. Tratto brevissimo ma oltremodo impegnativo perchè poi bisogna che i provvedimenti dell’esecutivo l’aula della Camera li approvi. E se il Pd, che di quel governo è l’unica architrave, vacilla - e malignamente c’è chi pensa che quel barcollìo sia prodotto ad arte per mettere sul governo la parola fine il più presto possibile - anche il successore di Renzi è costretto a ballare.

Corrono tutti insomma, dentro ed intorno al Nazareno. Galoppano qua e là: non tutti e non sempre con in tasca la bussola che indica una precisa direzione; spesso costretti a muoversi perchè chi sta fermo è perduto e perchè se rimani bloccato capita che non ti accorgi di colui che nel frattempo ti si è seduto vicino e ti ha arruolato: a tua insaputa, che va tanto di moda.

Chi al contrario e deleteriamente sta fermo, cementato ai nastri di partenza, zavorrato da mille distinguo, da caterve di furbizie, da miriadi di giochi e di veti incrociati è il meccanismo di voto, la riforma elettorale che in teoria dovrebbe dare il via alle danze e invece procede al ralenti, monumento al vorrei ma non posso. O non voglio, che è pure peggio.

Se tutti corrono, è il momento di fermarsi a riflettere: è necessario ma tanti lo considerano troppo faticoso e per nulla Social. La scissione del Pd, indipendentemente da chi ne sia il promotore e chi il danneggiato, ha l’effetto di una mina piazzata sotto il governo e la legislatura. Infatti la possibilità che, in una situazione che già era sfilacciata e adesso rischia di diventare inafferrabile, si mettano d’accordo sulle nuove regole Renzi e coloro che lo accusano di avergli piazzato due dita negli occhi è, per usare un eufemismo, minimale. Ma se il Pd si spezza tra chi si può trovare l’intesa per “omogeneizzare” il prodotto della Consulta? Difficile provare con Forza Italia; impossibile e autodistruttivo con i Cinquestelle. Ci sarebbero Lega e forse Fdi: ma non bastano. E allora? Allora può tornare in auge lo spiritello che dice che a ben guardare di una legge non è vero che ci sia bisogno; che si può andare ai seggi elettorali anche con le norme come scritte dai giudici costituzionali. E Mattarella si rassegni: in fondo il suo, costituzione alla mano, l’ha fatto. A urne chiuse ci sarebbe l’ingovernabilità? Non è detto. E comunque un passo alla volta: prima votiamo e poi si vede.

Il medesimo spiritello, naturalmente, inghiottirebbe il governo come un serpente con un topolino: a quel punto, a congresso Pd fatto e consumato in tempi brevi seppur non fulminei, nulla più osterebbe a spalancare l’autostrada verso lo scioglimento delle Camere. Insomma la scissione del Pd produce sul quadro politico lo stesso effetto di quella nucleare, con un fall out che si propaga su tutti i Palazzi. Con un solo, e neppure così piccolo, problema: che poi qualcuno deve ricostruire, essendo comunque costretto a utilizzare macerie contaminate. In fondo sono le stesse che con la loro tossicità alimentano continuamente l’antipolitica. La stessa che a quel punto può tranquillamente ritrovarsi la strada verso il potere del tutto spianata.