La sentenza della Corte costituzionale riporta indietro l’orologio politico italiano oppure svecchia il sistema e lo rende più agile? Si saprà tra poche ore e ognuno può confezionarsi la risposta che crede. Però un dato è sicuro: o il Paese è così cambiato da garantire ad una sola forza politica di superare il 40 e passa per cento dei consensi, oppure il proporzionale, più o meno corretto, è un percorso a senso unico: per arrivare alla maggioranza ( e a palazzo Chigi) costringe i partiti a coalizzarsi. Certo, una cosa è farlo prima dell’apertura delle urne, una completamente diversa è farlo dopo: ed è precisamente questa la differenza con il maggioritario. Pe- rò non si sfugge: o prima o dopo, l’intesa per governare è obbligata e la quota per il premio resta una chimera per chi vuole fare tutto da solo.

Se così è, il meno che si possa osservare è che il proporzionale piomba in un quadro politico che raffigura esattemente l’opposto. Nel senso che i partiti: di Prima, Seconda o Terza Repubblica - qualunque cosa queste definizioni significhino - tutto fanno tranne che tessere tele di accordo. Un bel paradosso, non c’è che dire: forse il più stordente. Succede infatti che la principale novità degli ultimi anni, il MoVimento inventato da Grillo e Casaleggio, e forse, stando ai sondaggi, anche il primo partito in termini numerici, un giorno sì e l’altro pure si affanna a sostenere che mai e poi mai stipulerà intese con altri: «Non faremo mai alleanze con i partiti che hanno devastato l’Italia negli ultimi decenni», sentenzia l’ex comico dal suo blog. Che magari a superare la soglia del 40 ci punta anche: per esempio mediante la sua stessa candidatura a premier.

Ma Grillo non è l’unico ad agitare la bandiera del “non possumus”. Nel centrodestra che fu ma, chissà, potrebbe ancora essere se Strasburgo riconsegnasse l’onore politico ( e la candidabilità...) a Silvio Berlusconi, non passa infatti giorno che non si allarghi la crepa - che in realtà ormai ha assunto le dimensioni di una voragine - tra il fondatore di Forza Italia e il successore del Senatùr. Al punto che Salvini affonda il coltello fino ad attaccare il sancta santorum del potere berlusconiano: le aziende Mediaset; e l’ex Cav non nasconde e anzi squaderna la distanza ormai siderale in Italia e a maggior ragione in Europa, tra lui e il patrocinatore delle ruspe contro rom, immigrati, clandestini e quant’altro. Peraltro Salvini ad ogni buon conto si affretta a smentire qualsiasi affinità con i pentastellati: «Siamo alternativi» . Resterebbe il Pd. Ma anche lì la sindrome del “meglio soli”, che non è più vocazione maggioritaria veltronaniamente intesa vista l’emorragia di voti, ma che comunque restringe il perimetro delle alleanze al punto da far dire a Massimo D’Alema che i Democrat «sono allo stato un partito isolato», è viva e lotta insieme a Renzi. Infatti guai a far intravedere all’ex premier possibili liaison tra il suo partito e Forza Italia: non se ne parla proprio. E se emergono accordi tattici per questa o quella nomina, per esempio all’Agcom, apriti cielo: anatema per chi l’ha intessuta ( il franceschiniano Luigi Zanda) e macchina indietro con tanto di comunicato ufficiale del Nazareno: «Nessun accordo è stato sottoscritto con Forza Italia».

Si dirà: dov’è il problema? Per sua stessa natura il proporzionale spinge ciascun partito ad esaltare le singole specificità ed è quindi ovvio che ciascun leader remi per proprio conto cercando anzi di spezzare quelli dei competitor.

Ovvio, forse. Autolesionistico e depressivo per il Paese, sicuro. Perché il problema è che poi la campagna elettorale finalmente finisce e qualcuno l’Italia la deve governare. Ecco allora che, come spesso accade, la realtà politica si sdoppia. Ufficialmente, infatti, prevale la retorica del meglio soli che accompagnati. Dietro le quinte, poi, è tutto un tremestio per stabilire in quale forma e a quale prezzo poter dare via libera agli accordi. Rovesciando la ricetta di Grillo, proviamo a vedere cosa può accadere usando la testa e non la pancia. Mettiamo che i Cinquestelle vincono le elezioni ma non abbiano i numeri per essere maggioranza in Parlamento. Giocoforza al primo giro Sergio Mattarella affiderà loro l’incarico di fare il governo. Che farà Grillo o chi per lui? Rinuncerà oppure proverà a verificare intese almeno tattiche con altri partiti a cominciare dalla Lega? Non era forse questo in gran parte il copione europeo dell’alleanza con l’Alde liberale di Verhofstadt?

E ancora. Se ad urne chiuse nelle condizioni di Grillo ci si ritrovasse Renzi o chi per lui, non farebbe lo stesso rivolgendosi agli alleati storici dell’Ncd o direttamente a Berlusconi? O preferirebbe passare la mano ai “populisti” antisistema?

Meglio dunque mettere da parte tante incertezze, e puntare su un terreno più solido. Per esempio quello che si determinerebbe all’indomani di una modifica al verdetto della Corte, attraverso una legge che rettificasse il nuovo sistema elettorale assegnando il premio di maggioranza non più alla lista bensì alla coalizione. In quel caso, infatti, le intese potrebbero e anzi dovrebbero essere fatte prima del voto. Fermo restando le mani libere per tutti nel caso in cui nessuno, lista o coalizione, riuscisse a superare la soglia per il premio di maggioranza. Il richiamo di Romano Prodi per la riattualizzazione dell’Ulivo va in questa direzione.

Solo che un tale assetto che sa di ragionevolezza si scontra con paio di ostacoli non da poco. In primo luogo che Renzi voleva il Mattarellum e si ritrova con un impianto di tipo opposto. In secondo, che per condurre in porto una legge simile occorre trovare un accordo ( ancora!) per il voto in aula almeno tra due dei tre grandi partiti: Pd e FI, per non fare nomi. Cosa che da un lato allunga i tempi e va in direzione contraria a ciò che vuole l’ex sindaco di Firenze; dall’altra rende difficile spiegare perché prima del voto Pd e Fi possono intendersi e dopo invece no. In altri termini la liaison in aula sarebbe nient’altro che il preludio dell’intesa post voto.