Va bene, bisogna aspettare la Consulta. E’ dalla sentenza sull’Italicum che passa il destino della legislatura, che si stabilisce la durata del governo Gentiloni e la conseguente fissazione della data delle elezioni. Lo sanno tutti, lo dicono tutti. Però le cose non stanno solo così. Infatti c’è un non detto che è la cartina di tornasole della difficoltà di chi inneggia alla necessità che il governo Gentiloni vada avanti senza limiti di tempo. Si tratta di un atteggiamento frutto di un mix di strumentalità e ( presunta) convenienza e che più passano i giorni più fatica a rimanere sottaciuto. Ma che tuttavia se viene a galla, può costringere a modificare in profondità la road map che porta alle urne: vale per tutti, perfino per il Quirinale.

Volendo provare ad esplicitarlo, il non detto è più o meno questo: possono le gracili spalle dell’attuale premier e della compagine ministeriale che guida, sopportare il peso degli enormi problemi che stanno sulla sua strada? A bocce ferme, la risposta è obbligatoriamente negativa. Diventa positiva solo a patto che il governo smetta la tonaca del “figlio di nessuno” per indossare la corazza dell’esecutivo di salvezza nazionale che lavora per mettere in sicurezza il Paese sia sotto il profilo politico- istituzionale grazie ad una nuova legge elettorale, sia sotto quello economico affrontando con i mezzi e l’autorevolezza giusta il confronto con la Ue. Chiarendo che, stando così le cose, il non detto e la domanda sottesa cambia e diventa: sono le forze e gli esponenti politici che reclamano la necessità di non mettere briglie temporali all’attuale inquilino di palazzo Chigi disposti a sostenere quell’impegno e l’eventuale impopolarità che ne potrebbe derivare?

Il tema diventa impellente di fronte ai rilievi sui conti pubblici italiani formulati dalla Commissione Ue ( è di ieri la lettera ufficialmente inviata al governo) con la conseguente sollecitazione per una manovra correttiva che recuperi la tanto famosa “flessibilità”.

Tradotto: 3,4 miliardi da trovare, pari allo 0,2 per cento del Prodotto interno lordo. A parte la «sorpresa» - un po’ curiosa - del ministro dell’Economia Piercarlo Padoan, la mossa del presidente del Consiglio, tanto doverosa quanto inevitabile, è stata di difendere le scelte del suo predecessore e fare muro contro le preoccupazioni di Bruxelles. Riservandosi però di analizzare le richieste della Ue e verificare se vanno accolte: qualcosa di più di uno spiraglio. Ma il punto vero è: se il contenzioso si risolvesse negativamente per l’Italia e il governo fosse costretto ad adottare dei provvedimenti per rientrare dallo sforamento del deficit, quale sarebbe l’accoglienza in Parlamento? Idem per le valutazioni del Fondo monetario internazionale ( che in Europa guardano con grande attenzione) che non solo rivede al ribasso le stime di crescita italiane ( e magari anche qui Padoan si sorprende) ma spiega nero su bianco che il mondo cresce cinque volte più dell’Italia e che il divario con alcuni partner continentali come Spagna, Francia, Germania per arrivare alla Gran Bretagna della Brexit invece di diminuire si accresce. Anche qui la domanda non muta: se si rendesse necessario definire misure specifiche, quale sarebbe il sostegno parlamentare?

Per non parlare dell’immigrazione. Oggi a Montecitorio il ministro Marco Minniti, tra i più apprezzati in questa fase, replicando alle mozioni presentate dalle opposizioni, illustrerà la nuova linea del governo per clandestini, rifugiati, richiedenti asilo eccetera. Interventi importanti che riguardano una materia tra le più scottanti: che tipo di accoglienza troverà?

Ci sarebbe anche il braccio di ferro con la Volskswagen; l’azione contro le minacce terroristiche; la fondamentale questione delle banche da salvare. Ma fermiamoci qui.

La questione è chiara. I Cinquestelle, come al solito, si sfilano lucrando i vantaggi dell’essere all’opposizione senza pagare alcun dazio di eventuali coinvolgimenti per interventi che salvaguardino asset decisivi. Sulla stessa linea, virgola più virgola meno, la Lega e FdI. Berlusconi ondeggia tra le pulsioni di scaricare su Renzi la colpa di “mance” elettoralistiche che hanno compromesso i conti pubblici e la voglia di offrire una sponda per ottenere il sistema proporzionale. I seguaci di Verdini sono sul piede di guerra. La sinistra dem ha annunciato da tempo che valuterà caso per caso i provvedimenti governativi per stabilire se votarli o no. Tra le stesse fila renziane non mancano gli scettici che non vedono la convenienza ad appoggiare interventi impopolari forieri di strascichi negativi nelle urne. A maggior ragione se si dovesse votare presto. E’ evidente che in queste condizioni Gentiloni non può che soccombere: e chissà se nelle schiere di chi vuole votare subito tanta messe problematica che si addensa sul tavolo del premier non produca un sorriso di compiacimento. Se invece, al contrario, l’inquilino di palazzo Chigi deve proseguire il suo cammino nelle more di un accordo sulla riforma elettorale, è evidente che la tiepidezza deve lasciare il posto ad un sostegno assai più forte e soprattutto assai più esplicito.

I tempi non sono lunghi: tutt’altro. Il 24 gennaio la Corte costituzionale comincerà l’esame dell’Italicum ed entro pochi giorni esprimerà il suo verdetto. La lettera della Ue deve trovare risposta da parte del governo entro il 1 febbraio. Mettiamola così: a Candelora, non solo si capirà se siamo fuori dall’inverno in virtù delle condizioni atmosferiche, ma anche se il clima politico attorno a Gentiloni è destinato a diventare sempre più freddo. Come accade per i moribondi.