IL COMMENTO

Il Cav e Renzi si rivolgono ai loro elettorati prima e sopra ogni tentativo di dialogo con i rispettivi interlocutori politici.

C’è un aspetto dei due colloqui di domenica di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi rispettivamente con Repubblica e Corriere della Sera che sovrasta gli altri: si tratta di interviste palesemente pre- elettorali. Rappresentano cioè la plastica conferma che è suonato il gong del giro finale della legislatura. Ovviamente sono valutazioni che andranno ricalibrate nel momento in cui si aprirà la partita vera: ossia dopo la pronuncia della Corte Costituzione sulla legge elettorale prevista per il 24 gennaio. Ma intanto forniscono indicazioni illuminanti.

Sia il segretario del Pd che il fondatore di Forza Italia, infatti, si rivolgono ai loro elettorati prima e sopra ogni tentativo di dialogo con i rispettivi interlocutori politici. L’obiettivo è quello che ogni comandante che si rispetti deve prioritariamente perseguire alla vigilia dello scontro decisivo: rinsaldare le truppe, dar loro conto della posta in palio, impartire le giuste disposizioni agli attendenti, rinforzare le postazioni maggiormente a rischio. Uno sforzo necessario dunque, e in definitiva obbligato. Ma che mette i principali leader politici - e sotto questo aspetto va ricompreso pure Beppe Grillo - anche e soprattutto di fronte alla loro solitudine. Soli con le loro tattiche e i piani di battaglia. Soli perchè si tratta di Commander in chief a cui manca la certezza dell’elemento saliente di ogni competizione democratica: il voto popolare.

Vediamo. Dei tre, è difficile contestare che il più in difficoltà è Matteo Renzi. L’ex premier viene da un filotto di sconfitte - ultima, tremenda, quella sul referendum costituzionale - che ne hanno, questo il punto vero, sostanzialmente azzerato il capitale politico sia sotto il profilo della crediblità sia sotto quello della leadership. Renzi deve trovare una nuova narrazione, stabilire una nuova linea politica, produrre un nuovo incantamento non solo nel popolo di sinistra ma nella più larga opinione pubblica anche di centrodestra. Complicato. Da un lato infatti Renzi insiste sul refrain per cui le mosse sin qui fatte sono state tutte giuste: se non hanno prodotto i risultati sperati è stato perché gli italiani non le hanno capite, e questo in virtù del fatto che la comunicazione di palazzo Chigi ( ma Filippo Sensi non c’entra...) non è risultata adeguata. Dall’altro avverte di voler risalire la china puntando a rinvigorire lo strumento fin qui più negletto: il partito. In altri termini Renzi fa intendere di aver capito che per tornare a vincere deve darsi una nuova veste ideale ( una volta si sarebbe detto ideologica) e deve ricompattare, riunificandolo, il Pd. Il tutto perché, e veniamo al nocciolo, dal picco storico del 40 per cento alle Europee, nelle urne è stato un susseguirsi di amarezze. Urge recuperare voti. Con quale orizzonte? Di nuovo la vocazione maggioritaria, di nuovo il bipolarismo incentrato sul battollaggio o, in subordine, sul Mattarellum. Peccato che i ballottaggi fin qui svolti abbiamo dimostrato che è il M5S a vincerli, magari con l’aiuto degli elettori di centrodestra. Peccato anche che il Mattarellum non si capisce in Parlamento chi lo voti, considerato che non viene preso in considerazione né da Grillo né da Berlusconi. E dunque? Dunque Renzi dopo la “straperdita” del 4 dicembre, non pare ancora in grado di articolare una proposta capace di imporsi. Subito dopo il responso referendario, infatti, aveva chiesto il governo di tutti o le elezioni. Il primo non è arrivato; le seconde neppure. Al tornante della riforma elettorale rilancia il Mattarellum: nel deserto.

Non così meglio sta Berlusconi, che tuttavia ha molto meno da perdere del suo dirimpettaio del Nazareno e si ritrova con più carte in mano da giocare. Pur di tornare a recitare la parte del protagonista ( l’unica che gli va a genio, peraltro), il fondatore di Forza Italia non esista a rottamare la sua creatura politica più significativa: il bipolarismo e il centrodestra costruito con le sue mani. La rottura con la Lega ( vera o presunta: Silvio è sempre bifronte) di questo parla. Una scelta ben calibrata, fatta sapendo che lo schema del ‘ 94 e lo schieramento che ne derivava sono strumenti obsoleti. In una competizione per la leadership, infatti, Berlusconi rischia di essere superato da Salvini; e il centrodestra con Carroccio e Fdi dentro molto difficilmente può prevalere e riconsegnargli le chiavi del governo. Dunque Berlusconi chiama all’adunata il consenso moderato, cattolico, liberale. Però, anche qui, il nodo è che quei voti sono chimerici. Silvio spiega che vuole ripresentarsi candidato premier ( Strasburgo permettendo) e annettersi più del 50 per cento dei voti. Allo stato ha un consenso intorno al 10- 15 per cento: dove sono gli altri? Più che una campagna elettorale stratosferica, servirebbe un miracolo.

Ultimo della serie Beppe Grillo. Il quale, sondaggi alla mano, sembra stare meglio di tutti. Il consenso grillino, nonostante i passi falsi in Europa per lo sliding doors con l’Alde e l’azione non esaltante di Virginia Raggi a Roma, non sembra perdere smalto e appare ben lontano dal tracollo nel quale tanti sperano. Solo che anche l’ex comico ha il suo tallone d’Achille ed è lo stesso degli altri due: i voti che mancano. L’attuale bottino elettorale, infatti, non basta per governare ed è sideralmente lontano dal raggiungere la maggioranza assoluta. Ciò nonostante, i Cinquestelle insistono nel mantra di non voler fare alleanze. Cioè si autoescludono dalla competizione per palazzo Chigi. Conclusione: bisogna riportare ai seggi almeno una fetta del 50 per cento di italiani che non votano più. Renzi con il referendum ci è riusciuto, però con risultati opposti ai desideri. Berlusconi e Grillo forse neanche ci proveranno.

RENZI INSEGUE UNA VOCAZIONE MAGGIORITARIA SEPPELLITA DAL REFERENDUM.

BERLUSCONI PUNTA AL 50 PER CENTO. GRILLO NON VUOLE ALLEANZE.