Gustavo Zagrebelsky ha dato il via venerdì scorso alle interviste “pesanti” dopo il referendum. Intervistato dal direttore del Fatto quotidiano è andato giù duro sull’attuale governo, in perfetto stile grillino, peccato che la platea di riferimento lo ha praticamente ignorato. Il flop del generoso Zagrebelsky ignorato dai cinici grillini

La serie delle interviste dei ritorni, o dei “rieccoli”, dopo il silenzio delle feste di Capodanno e le pause di riflessione politica imposte da insuccessi o successi, non si è aperta domenica su Repubblica e sul Corriere della Sera con le paginate dedicate, rispettivamente, a Matteo Renzi e a Silvio Berlusconi: il grande sconfitto del referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale e uno dei vincitori, non il solo, avendogli fatto compagnia in tanti, anche troppi, a cominciare da Beppe Grillo, il più dotato di voti, oltre che di risate.

La serie era stata aperta due giorni prima, venerdì 13 gennaio, sul Fatto Quotidiano dal direttore in persona Marco Travaglio, su tutta la prima pagina, come “prima intervista dopo il referendum”, col presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky: “emerito”, come si leggeva in un box biografico, anche come presidente del comitato per il No alla riforma costituzionale. Che il mese prima era stata bocciata, con comprensibile gaudio del professore, da 19 milioni e 419.507 elettori, arrotondati generosamente da Travaglio nel titolone dell’intervista per far definire da Zagrebelsky il governo di Paolo Gentiloni Silverj, nominato dopo le dimissioni di Renzi e regolarmente fiduciato dalle Camere, “una presa in giro per 20 milioni di italiani”, condannati ad una “continuità” evidentemente truffaldina.

Sarà pure “emerito”, con tutto ciò che uno immagina e si aspetta all’ombra di questo aulico aggettivo, ma l’ex presidente della Corte Costituzionale non fa sconti nel linguaggio, come si vede, quando trova un giornalista capace di metterlo a suo agio e di farlo parlare con la pancia, come Beppe Grillo proprio in occasione del referendum raccomandò ai suoi elettori di votare, lasciando perdere la testa. Usando la quale chissà che cos’altro sarebbe uscito dalle urne del 4 dicembre, di ancora più clamoroso di una sconfitta di Renzi con 18 punti e rotti di distacco dagli avversari.

Vista infatti l’ostinazione con la quale nei sondaggi i voti per i grillini crescono anche dopo gli infortuni della sindaca di Roma Virginia Raggi e quello personale in cui è incorso il comico genovese in persona trattando nel Parlamento di Strasburgo il fallito passaggio dei suoi “portavoce” nel gruppo liberaldemocratico, è francamente difficile immaginare che, votando con la testa anziché con la pancia, gli italiani pentastellati avrebbero potuto approvare la riforma di Renzi. Piuttosto, si sarebbero mangiate le schede o le avrebbero imbrattate chissà di che cosa per esprimere al meglio, diciamo così, le viscere che spesso mostrano di avere al posto del cervello.

*** Già criticata sul Dubbio per talune sue stravaganze, a dir poco, come quella di considerare tranquillamente applicabile ai parlamentari il cosiddetto “vincolo di mandato” negato invece dall’articolo 67 della Costituzione, per cui essi dovrebbero decadere piuttosto che cambiare gruppo, l’intervista di Zagrebelsky a Travaglio impone ulteriori riflessioni per l’accoglienza avuta negli ambienti ai quali credo che fosse stata destinata maggiormente da un giornalista non certamente ingenuo o sprovveduto com’è Travaglio: gli ambienti cioè grillini, che il direttore del Fatto Quotidiano è solito difendere da critiche e attacchi, al pari del resto dell’ex presidente della Corte Costituzionale. Che proprio nell’intervista ha ripetuto ciò che il suo intervistatore ed estimatore dice, con le stesse parole: “Non perdonano ai 5 stelle ciò che perdonano agli altri”.

Ebbene, negli ambienti grillini, come ho verificato personalmente sul blog del loro capo o “garante”, almeno sino al momento in cui scrivo, l’intervista di Zagrebelsky è passata come acqua sulla pietra. Non si è meritata una citazione, un elogio, un commento. Niente di niente. Si è trovato e si trova di tutto, naturalmente anche la polemica con Renzi per quell’” algoritmo” col quale il segretario del Pd ha liquidato il movimento grillino ricordando “le carte e le firme false” cui gli aderenti ricorrono “per farsi la guerra fra di loro”, oltre che agli avversari, ma del povero Zagrebelsky neppure una fotina formato tessera.

Eppure il presidente emerito della Consulta nel 2013, all’inizio di questa legislatura di esordio per i grillini, era tra i magnifici dieci candidati del popolo internettiano delle 5 Stelle al Quirinale, ultimo solo in ordine alfabetico, con Emma Bonino, Gian Carlo Caselli, Dario Fo, Milena Gabanelli, lo stesso Beppe Grillo, Ferdinando Imposimato, Romano Prodi, Stefano Rodotà e Gino Strada. E Zagrebelsky tornò ad essere fra i candidati grillini al Quirinale anche due anni dopo, quando Giorgio Napolitano volle interrompere per ragioni di stanchezza e di opportunità politica il suo secondo mandato presidenziale riaprendo una corsa vinta, come si sa, da Sergio Mattarella.

Nella seconda corsa al Quirinale, fra i candidati indicati dai grillini, a dimostrazione della loro imprevedibilità, comparve, accanto al presidente emerito della Consulta ed altri, anche l’ormai segretario del Pd Pier Luigi Bersani, che essi non avevano voluto aiutare due anni prima a formare quel governo “minoritario ma di combattimento” immaginato dall’uomo di Bettola fra le preoccupazioni e gli scongiuri metaforici dell’allora capo dello Stato.

Probabilmente, pensando proprio a questi precedenti, oltre che alla partecipazione diretta di Zagrebelsky alla campagna referendaria contro la riforma costituzionale targata Renzi, il direttore del Fatto deve avere pensato la settimana scorsa di potere offrire al dibattito politico l’intervista al presidente emerito della Corte Costituzionale come un sostegno di prim’ordine, una specie di patronato all’Italia immaginata da Grillo. E ciò al netto di tutti gli errori e le baggianate dei “portavoce” di vario livello, dei loro contratti e dei codici di comportamento, o etici. Ma dalla sponda grillina non è arrivato – ripeto – segnale alcuno, a meno che non comunichino chissà con quale altra diavoleria a noi sinora sconosciuta.

*** Eppure il buon Zagrebelsky - bisogna concederglielo, pur dissentendo dalla sua interpretazione dell’articolo 67 della Costituzione ed altro ancora - ha fatto di tutto, magari anche inconsapevolmente, per guadagnarsi il consenso grillino del comico genovese e del suo popolo.

Oltre ad averne condiviso sin troppo l’aspirazione al cosiddetto vincolo di mandato parlamentare, precluso invece dalla Costituzione, ed averli difesi dal trattamento pregiudizialmente ostile che riceverebbero dagli avversari, il presidente emerito ha riconosciuto ai grillini il merito di stare finalmente “scoprendo la politica” con il tentativo pur fallito di stringere “alleanze” più utili nel Parlamento europeo. “Evviva”, è arrivato a dire Zagrebelsky ad un Travaglio, immagino, estasiato, che non a caso, alla fine della lunga intervista ha detto, e scritto in neretto, “Grazie, professore”.

All’incidente capitato a Grillo con i liberaldemocratici di Strasburgo, e al ritorno dei suoi “portavoce nel gruppo di Nigel Farage con la coda fra le gambe, il buon Zagrebelsky ha esortato a dare “meno peso politico” di quello invece ottenuto perché sarebbe stata solo “cattiva gestione di un problema di tattica parlamentare, che accomuna tutti coloro che stanno in Parlamento”.

La cosa importante, per il presidente emerito, è che i grillini, oltre a porsi finalmente “il problema delle alleanze”, si convincano che “in democrazia anche i compromessi”, indispensabili appunto per le alleanze, “non sono il demonio”. A meno che – e qui casca, a dir poco, l’emerito – alleanze e compromessi non vengano fatti dagli altri, per esempio dal Pd di Renzi, dal Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano, dai centristi di Denis Verdini e da Forza Italia di Silvio Berlusconi, per escludere i grillini, o per difendersene, perché in questo caso le cosiddette larghe intese coprirebbero solo “l’ennesimo traffico di interessi, col fine ultimo di restare a galla comunque”.

A questo punto, dopo tante convergenze di speranze e sentimenti, ma forse anche risentimenti, viene da chiedersi perché mai i grillini abbiano lasciato cadere nel vuoto quella specie, ripeto, di patronato di Zagrebelsky che avrebbe potuto diventare per loro la così tempestiva intervista di Travaglio all’inizio di quest’anno difficile che è il 2017, col rischio ch’esso sia davvero quello delle elezioni anticipate che lo stesso Movimento 5 Stelle reclama, o finge di reclamare, come sospettano i soliti maliziosi avversari.

Il flop dell’operazione a torto o a ragione attribuibile a Travaglio è forse stato causato dalla diffidenza congenita di Grillo verso tutto ciò che non appartiene al suo stretto giro più o meno magico, come dimostrò l’attacco da lui mosso al povero Stefano Rodotà la prima volta che questi osò avanzare qualche critica al movimento. Un po’ come fece l’Umberto Bossi dei primi tempi della Lega, quando mandò a quel paese, come “una scoreggia nello spazio”, il povero professore Gianfranco Miglio, sino a quel momento considerato l’ideologo del Carroccio.

Ma ha giocato forse per il flop soprattutto quella parte dell’intervista in cui il pur generoso, paziente, clemente Zagrebelsky ha riconosciuto che dalle parti di Grillo debbono ancora “chiarire” i problemi “della democrazia interna, della selezione della classe dirigente, del programma di politica estera, dell’immigrazione”. Perché a risolvere tutti questi punti non basterebbe neppure la concessione fatta dal presidente emerito a Grillo di considerare fattibile, a Costituzione invariata, con un’altra delle sue acrobazie istituzionali, “un referendum informale sull’euro”: altra materia esplosiva nei rapporti che i pentastellati dovessero davvero decidere di avere con gli altri partiti.

Il fatto è che “all’uomo impicciato – come scrive il grande Alessandro Manzoni nei suoi Promessi Sposi – quasi ogni cosa è un nuovo impiccio”.