Il 2017 ci ha riservato alcune sorprese. L’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi ha inaugurato una stagione post- referendaria sottraendosi ai giornalisti, alle telecamere e annullando la sua presenza quotidiana sui social network. Proprio come faceva Aldo Moro.

In questi giorni, poi, Beppe Grillo ha tentato una sortita che lo avrebbe ascritto a seguace del leader storico dei liberali italiani: il presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Ma quest’illusione è durata davvero poco.

Questa Italia del 2017 è ancora più sottosopra del solito. Ci ha già regalato un Matteo Renzi sorprendentemente moroteo e un Beppe Grillo altrettanto a sorpresa einaudiano, ma rifiutato in quattro e quattr’otto dai liberali europei, che l’hanno mandato all’Aldilà, pardon Aldelà, non volendolo a Strasburgo nella loro Alde, come si chiama il gruppo dei liberaldemocratici.

Il moroteismo di Renzi appartiene alla sua fase post- referendaria e post- natalizia, al netto naturalmente dell’anagrafe, di quell’inconfondibile ciuffo bianco dei capelli sulla fronte, dello stile per niente spavaldo e di tante altre cose del compianto presidente della Dc rapito dalle Brigate rosse il 16 marzo 1978 e ucciso dopo 55 giorni, proprio mentre il povero Giovanni Leone al Quirinale tentava la carta disperata della grazia a una detenuta per reati di terrorismo, pensando di fare breccia nell’animo degli spietati aguzzini.

Ma che c’entra mai il ricordo di Moro con Renzi? Mi chiederete scandalizzati. Un Moro al quale, succeduto ad Amintore Fanfani alla segreteria della Dc nel 1959, bastò parlare una sola volta col professore Gianfranco Miglio, uno dei consiglieri del suo predecessore, per chiedere al fidato e fedele Sereno Freato di cancellarlo dall’elenco dei consulenti del partito. Ne era rimasto troppo scioccato a sentirgli dire che la Costituzione in vigore da soli undici anni andava rifatta da capo a piedi. Cosa che invece non doveva avere scandalizzato per niente Fanfani, incline già allora a qualche tentazione presidenzialista, che d’altronde si era affacciata anche nell’Assemblea Costituente eletta dagli italiani nel 1946, insieme col referendum istitutivo della Repubblica. Non se n’era fatto naturalmente nulla perché troppo fresco era il ricordo del fascismo e troppo grande la paura di ricascarvici dando troppo potere a un capo qualsiasi, dello Stato o del Governo, peggio se insieme.

Pertanto, volendo proprio cercare un antenato democristiano a Matteo Renzi, proprio quando si mise in testa l’idea di rifor- mare la Costituzione e si presentò al Senato con le mani in tasca per dire senza mezzi termini che non vedeva l’ora di poter fare a meno della fiducia dei suoi inquilini, qualcuno pensò tre anni fa proprio a Fanfani. E ciò anche per il gran bene che gliene diceva la fidata ministra delle riforme Maria Elena Boschi, troppo giovane per avere conosciuto e frequentato l’illustre aretino, ma bene al corrente della sua storia per le magnifiche cose raccontatele di lui dal babbo.

Forse neppure al papà di Renzi, di origini democristiane pure lui, doveva essere dispiaciuto Fanfani per affinità geografica, quanto meno, prima che scoprisse le virtù del più giovane Ciriaco De Mita e ne diventasse un simpatizzante, secondo un racconto fattone dallo stesso De Mita durante la campagna referendaria un paio di mesi fa, sfogandosi contro l’allora presidente del Consiglio per l’” aggressività” con la quale lo aveva trattato in un confronto televisivo sulla riforma costituzionale. E pensare - disse De Mita agli amici - che quell’arrogante mi aveva parlato in privato del padre come di un demitiano. Ma nella Dc, come sanno i più vecchi o i meno giovani, le correnti erano veramente femminili, fedeli alla rigolettiana formula della “donna è mobile”.

Uno stagionatissimo fanfaniano come l’ex sindaco di Roma ed ex ministro delle allora Partecipazioni Statali e della Giustizia Clelio Darida sobbalzò sulla sedia a sentir parlare per la prima volta Renzi davanti ad una telecamera. “Ma questo – mi disse- è un Fanfani giovanissimo”, al netto naturalmente della differenza altimetrica. E un altro fanfaniano, meno stagionato ed anche meno entusiasta, avendo poi preferito a Fanfani il buon Arnaldo Forlani, mi disse un po’ controvoglia: “Sì, qualcosa di lui c’è, ma in peggio”.

A Fanfani, ad un certo punto, Renzi fu paragonato anche, con tanto di citazione e motivazione, dall’esigentissimo Eugenio Scalfari sulla sua Repubblica, quando cominciò ad apprezzarne il “vigore” e a compiacersi delle telefonate che il giovanotto, furbissimo, cominciò a fargli con l’aria di esserne un lettore attentissimo e di volergli chiedere consigli. All’ultimo dei quali però si è sottratto, essendosi dimesso da presidente del Consiglio dopo la scoppola referendaria, anziché restare a Palazzo Chigi, come voleva anche il presidente Sergio Mattarella, pronto a rinviarlo alle Camere per sanare con un dibattito e una conferma della fiducia lo strappo consumatosi con gli elettori per la bocciatura della riforma.

Personalmente, a dire il vero, a me Renzi apparve sin dall’inizio della sua avventura nazionale, con la prima fallita scalata alla candidatura a Palazzo Chigi e poi con quella riuscita alla segreteria del partito, un emulo di Bettino Craxi, per la sua dichiarata volontà di ammodernare la sinistra e per la rotta di collisione in cui era entrato con la parte del Pd di più marcata prove- nienza comunista. Ma smisi di dirlo e di scriverlo quando lui la prese con il paradossale conformismo della sinistra più vecchia e giustizialista quasi come un’offesa, dichiarando di riconoscersi di più in Enrico Berlinguer, piuttosto che nell’” opportunismo” dello scomparso leader socialista. Del quale, d’altronde, aveva detto anche di peggio quando, sindaco di Firenze, aveva cestinato la richiesta di dedicargli una strada: cosa alla quale teneva, oltre ai figli di Bettino, che non gli hanno mai perdonato giustamente una certa villania nel rifiuto, un fiorentino illustre come Lelio Lagorio, succeduto sia pure per poco a Giorgio La Pira al vertice della città e poi primo presidente della regione Toscana, scomparso proprio in questi giorni a 91 anni compiuti nello scorso novembre. Addio, Lelio carissimo.

Ricordato tutto questo, e scusatomi pure per un così lungo ritorno all’indietro più o meno pertinente con i fatti e i problemi di oggi, mi chiederete di nuovo che cosa mai possa azzeccarci Aldo Moro con Renzi, per usare un verbo reso famoso da Antonio Di Pietro nelle aule di tribunale, o nel suo ufficio di pubblico ministero, quando torchiava a dovere, ma anche oltre il dovuto, i malcapitati che finivano sotto indagine per Tangentopoli e balbettavano di fronte alle sue incalzanti domande.

Moro ci azzecca perché questo diavolo di Renzi ha costretto in questo inizio d’anno i giornalisti, che per un po’ di tempo non lo hanno avuto più a portata di piede, di mano, di telecamera e persino di telefonino, che deve avere prudentemente cambiato, a interpretare i suoi silenzi. Quelli di Moro erano a volte lunghissimi. E lui mi confessò una volta di divertirsi a vedere che cosa noi giornalisti riuscissimo a inventarci con l’aria di interpretarlo o di intuirne progetti o umori. Il più lungo dei silenzi di Moro, durato un’intera estate, mentre le correnti del suo partito si esercitavano nei consueti convegni in montagna o capi e capetti si facevano intervistare sotto l’ombrellone, fu quello del 1968. Un silenzio seguito alla decisione dei “dorotei” di Mariano Rumor, Flaminio Piccoli e Tony Bisaglia, ma anche Emilio Colombo, di estrometterlo da Palazzo Chigi per essere stato troppo accondiscendente con gli alleati socialisti. Ai quali tuttavia, per succedergli alla guida del governo, essi poi diedero molto più di quel che non avevano permesso a lui di concedere. È un po’ quello che oggi gli avversari interni di Renzi sembrano disposti a fare con i vari Angelino Alfano e soprattutto Silvio Berlusconi per allontanare le elezioni anticipate e predisporre le carte di governi dalle larghe intese nella prossima legislatura.

È un curioso destino, quello di Berlusconi di essere prima demonizzato, sino a perdere il seggio di senatore con una votazione a scrutinio addirittura palese, e in applicazione retroattiva di una legge che non si voleva e non si vuole definire penale pur comportando una pena come la decadenza dal Parlamento, e poi corteggiato. Lo stesso Renzi si fece aiutare da lui col famoso Patto del Nazareno, propedeutico alla formazione del suo governo, dopo avere impedito ai suoi a Palazzo Madama di risparmiargli la sostanziale espulsione rinviando la questione all’esame della Corte Costituzionale, come aveva suggerito, fra gli altri, Luciano Violante. Ora toccherà forse a Bersani nella prossima legislatura, o forse già in questa, ad accarezzare il giaguaro berlusconiano dopo avere creduto di averlo smacchiato, con l’aiuto del simpatico Maurizio Crozza, nella infelice campagna elettorale del 2013.

Curioso è anche il destino di Beppe Grillo, che nel Parlamento europeo di Strasburgo, pur non facendone parte personalmente, ha cercato di essere un malagodiano - da Giovanni Malagodi, storico segretario di quello che fu il Partito Liberale Italiano - o un einaudiano - da Luigi Einaudi, liberale ancora più storico di Malagodi ed ex presidente della Repubblica per accasare i suoi “portavoce” pentastellati nel gruppo più europeista di quell’emiciclo: il più convinto dell’utilità della moneta unica con la quale molte volte il comico genovese ha dato invece l’impressione di voler fare ciò che minacciava Umberto Bossi col tricolore incautamente esposto da una signora veneziana alla finestra di casa mentre lui proclamava la Repubblica autonoma e indipendente della Padania.

Più che stupirsi della disinvoltura politica di Grillo, refrattario in Italia alle alleanze per paura di perdere la sua “diversità” o innocenza, ci sarebbe stato però da stupirsi, in verità, dei liberali europei se lo avessero preso sul serio pur di diventare con i pentastellati il terzo gruppo del Parlamento di Strasburgo, e guadagnare così posizioni e finanziamenti in concorrenza con i popolari, o democristiani, e i socialisti.

È un po’ quello che accadde a suo tempo col gruppo proprio dei popolari, che accolsero i deputati forzisti di Berlusconi, nonostante le proteste dei popolari italiani dei vari Franco Marini e Dario Franceschini, pur di diventare il più numeroso a Strasburgo. Ma i liberali non ci sono cascati e hanno chiuso la porta in faccia ai grillini, affrettatisi nel frattempo in Italia ad accettare digitalmente l’ultima giravolta politica del loro leader, pur tra mugugni ed anche qualche protesta.

Adesso naturalmente Grillo si è inventato l’ennesima manovra dei soliti poteri forti per emarginarlo, in una versione un po’ aggiornata del complotto plutodemo- giudaico- massonico di mussoliniana memoria.