La Corte costituzionale, che deve decidere se si potrà tenere il referendum sul jobs act, contraddirà o confermerà le decisioni che su questa materia ha precedentemente preso, e in particolare la sentenza che nel 2003 l’ex presidente della Corte Gustavo Zagrebelsky scrisse proprio per ammettere un referendum, e proprio un referendum che si proponeva di estendere le garanzie contro l’ingiusto licenziamento? Al momento, il vero dilemma che la Corte si trova ad affrontare sembrerebbe questo: se confermare la propria giurisprudenza in materia, o ribaltarla.

Un dilemma non da poco, anche perché quello della continuità tra le sentenze è alla Consulta un criterio- guida, e che si risolverà solo l’ 11 gennaio, quando il collegio dei giudici si riunirà, e prenderà la decisione. Anche se - sia detto per inciso - non è detto che venga immediatamente comunicata: la questione è così spinosa, e con tali ricadute politiche, che non sarebbe insolito se i giudici scegliessero di renderla pubblica solo al momento in cui sarà pronta la sentenza, in modo che alla pubblica opinione siano chiare in lungo e largo le motivazioni. E dunque, ci potrebbe volere qualche giorno in più oltre quella data - mercoledì prossimo cerchiata di rosso sulle agende dei palazzi istituzionali e politici.

Il condizionale è d’obbligo, come sempre per tutto quel che riguarda la Consulta. Non solo perché come è ovvio nulla è mai veramente deciso finché i giudici non si riuniranno tutti insieme in sede deliberante, ma anche perché come ormai ritualmente accade per ogni decisione capace di segnare un profondo punto di svolta nella vita del Paese sono già filtrate - ovvero sono già state fatte filtrare - indi- screzioni che dipingono due precisi fronti contrapposti: quello di chi è favorevole a che non si tenga il referendum per cancellare la riscrittura renziana dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, e quello di chi è contrario.

Nelle ricostruzioni giornalistiche circolate - che sono inevitabilmente delle semplificazioni - il primo fronte ( al quale vengono iscritti i giudici Amato e Barbera) sarebbe preoccupato essenzialmente delle ricadute politiche: se il referendum si tenesse ( a termine di legge in una data compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno di quest’anno) e poi vincessero i sì all’abrogazione si tratterebbe non solo di un’inversione di rotta nel mercato del lavoro con ' ricadute' anche a livello europeo sulla reputazione riformistica dell’Italia, ma anche di un’altra sonora bocciatura delle politiche renziane, dopo quella già vistosa che ha riguardato il tentativo di riscrittura della Costituzione ( un punto quest’ultimo al quale sarebbe più sensibile il giudice Barbera, e questo perché egli fu fortemente voluto alla Consulta proprio dall’ex premier).

Ma il secondo fronte, che al momento potrebbe essere più ampio del primo, in quanto trasversalmente composto da giudici di nomina parlamentare e presidenziale, nonché delle alte magistrature, è quello che affronta la questione sotto il profilo squisitamente costituzionale. Difficile dire se si possano ascrivere tra loro i tre relatori che devono presentare al collegio altrettante relazioni sui tre punti riuniti in un unico quesito referendario. Ma è lecito supporre che la giuslavorista Silvana Sciarra, in campo proprio sull’articolo 18, possa essere favorevole all’ammissibilità: non solo e non tanto perché si tratta dell’allieva proprio dell’autore dello Statuto dei Lavoratori Gino Giugni, quanto perché nelle sentenze di cui è stata relatrice l’aspetto preminente - e anche con un certo scalpore - era l’attinenza alla Costituzione anche a prescindere del contesto esterno in cui poi quelle sentenze sarebbero intervenute ( basti pensare a quella sulle pensioni). Per i fautori di questa tesi - all’esterno della Corte tra loro ci sono i costituzionalisti Azzariti e Pallante non solo la Consulta deve necessariamente attenersi al criterio dell’ammissibilità del referendum, senza sindacare nella materia che esso affronta ( cosa di cui sono consapevoli anche gli attuali costituzionali, data la giurisprudenza in materia). Ma soprattutto non è eludibile quella sentenza del 2003 che ammetteva una consultazione che aveva lo scopo di estendere le garanzie dei lavoratori, e che mise un punto fermo sulla questione che si presenta anche oggi: se da un referendum abrogativo possa nascere un estensione di diritti ( e vale la pena qui di ricordare che l’attuale presidente della Corte, lo storico del diritto Paolo Grossi, ha fatto un mantra della Consulta come moltiplicatore dei diritti dei cittadini, «che nei suoi sessant’anni di storia ha sempre ampliato, trovandoli nelle pieghe della Costituzione» ). Il referendum, scrisse nel 2003 il professor Zagrebelsky, «è rivolto in primo luogo all’estensione della garanzia reale contro i licenziamenti ingiustificati ai lavoratori che attualmente, in conseguenza dei limiti numerici, godono esclusivamente della garanzia obbligatoria». A bloccare quel referendum non fu la Corte costituzionale, ma gli italiani che fecero mancare il quorum.