Chissà cosa è accaduto nei rapporti col segretario del Pd, per indurre Mattarella a non ripetere nel messaggio di Capodanno il «ringraziamento» a Matteo Renzi per i tre anni di «intenso impegno a capo del potere esecutivo».

Chissà cosa è accaduto nei soli 11 giorni trascorsi fra il 20 e il 31 dicembre, nei rapporti col segretario del Pd, per indurre il buon Sergio Mattarella, pur così attento alle forme, com’è giusto d’altronde che sia il presidente della Repubblica, a non ripetere nel messaggio televisivo di Capodanno trasmesso a reti unificate il «saluto cordiale» e il «ringraziamento» a Matteo Renzi per i tre anni di «intenso impegno a capo del potere esecutivo». Così aveva detto il capo dello Stato parlando alla più ristretta e solita platea delle ' autorità istituzionali' salite prima di Natale al Quirinale, con i dovuti inviti, a formulargli e riceverne gli auguri di buone feste.

Nel messaggio della sera di San Silvestro sono invece bastate pochissime parole al capo dello Stato per ricordare l’accaduto all’indomani della bocciatura referendaria della riforma costituzionale, il 4 dicembre: «Dopo il referendum si è formato un nuovo governo».

Più laconico e freddo di così francamente il presidente della Repubblica non poteva essere col popolo che lo ascoltava nell’attesa del nuovo anno ma pensando ancora al vecchio che finalmente se ne andava. Del resto, Mattarella si avviava alla conclusione del messaggio, scrupolosamente letto sul ' gobbo' delle telecamere che lo riprendevano da più postazioni, volendo fare solo un dichiarato «cenno alla vita delle nostre istituzioni», cioè alla politica, come se avvertisse il fastidio di tanta gente a sentirne solo parlare.

È un fastidio, questo per la politica, evidentemente aumentato, e non diminuito, a dispetto dell’alta affluenza alle urne referendarie apprezzata da Mattarella come prova di salute della democrazia, da quando parlamentari, dirigenti di partiti e anche noi giornalisti che ne raccontiamo e commentiamo le gesta abbiamo mutuato dal mondo degli internauti tanto caro a Beppe Grillo e seguaci il linguaggio astioso, anzi di ' odio', come ha opportunamente lamentato il presidente della Repubblica.

Ma torniamo al Renzi omesso nel messaggio di fine anno di Mattarella e alle ragioni che potrebbero spiegarlo, dovendosi escludere per il rispetto che si deve avere del presidente ad una mera casualità o dimenticanza. Gli si farebbe in fondo un torto liquidando così la vicenda o, se preferite, il giallo di San Silvestro al Quirinale.

Di motivi di delusione e persino di disappunto nei riguardi di Renzi il presidente della Repubblica ne avrebbe non solo per i fatti precedenti ma anche per quelli successivi al referendum del 4 dicembre, cui peraltro Mattarella partecipò votando sì alla riforma costituzionale secondo l’impressione o l’anticipazione data da Eugenio Scalfari. Del quale si dice, scherzando ma non troppo, che trascorra il suo tempo libero al telefono, o in udienza, con Papa Francesco o il presidente di turno della Repubblica, raccogliendo giustamente i frutti della sua autorevolezza. In ogni caso, a quella impressione o anticipazione del fondatore della Repubblica di carta non seguì alcuna smentita o precisazione della Presidenza della Repubblica vera.

Non è un mistero nei palazzi della politica che Mattarella, dopo avere condiviso il dissenso e le preoccupazioni del predecessore Giorgio Napolitano per la personalizzazione della campagna referendaria da parte di Renzi, avrebbe preferito che, una volta sconfitto, l’allora presidente del Consiglio non andasse oltre il bel gesto delle dimissioni, minacciate durante la fase, appunto, della personalizzazione della partita. In particolare, Mattarella avrebbe preferito - guarda caso - la stessa strada consigliata pubblicamente a Renzi da Scalfari: cioè di lasciarsi praticamente respingere le dimissioni dal presidente della Repubblica o presentandosi alle Camere per chiedere e ottenere la conferma della fiducia o accettando un nuovo incarico, se avesse voluto cogliere l’occasione per rimaneggiare il suo governo.

Con quel percorso della crisi Mattarella pensava di poter assicurare una più visibile continuità e stabilità in vista degli importanti appuntamenti internazionali programmati proprio da Renzi: per esempio, il vertice europeo di marzo a Roma per i 60 anni dei primi trattati comunitari firmati in Campidoglio e il vertice mondiale - G7 - di fine maggio a Taormina.

Ma Renzi non volle sentire ragioni, anche a costo di dare l’impressione, a torto o a ragione, di non considerare abbastanza autorevole la copertura istituzionale garantitagli da Mattarella nelle polemiche o aggressioni politiche che le opposizioni partitiche e mediatiche gli avrebbero riservate restando lui a Palazzo Chigi. Il segretario del Pd preferì salvare la faccia impacchettando in tutta fretta le sue cose nella sede della Presidenza del Consiglio per riportarsele di notte a casa, in Toscana, e twittare da lì le carezze ai figli e le apprensioni per la sua scomoda, rischiosa condizione di politico senza immunità e senza neppure più uno stipendio. Al quale sembra che abbia già provveduto in qualche modo la casa editrice Feltrinelli anticipandogli i diritti d’autore di un libro che lui sta scrivendo in tutta fretta, fra un supermercato e l’altro, sulla sua esperienza di governo. Che probabilmente farà finalmente conoscere qualcosa in più su quel famoso # enricostaisereno che anticipò la caduta del governo delle ex larghe intese di Letta, appunto, Enrico. O sulla mancata nomina di Massimo D’Alema ad alto commissario europeo per la pur inesistente politica estera dell’Unione e la sicurezza, con quali effetti si è visto con la partecipazione delle due volte rottamato esponente del Pd alla campagna referendaria contro la riforma costituzionale.

Diciamo la verità, al posto di Mattarella chiunque di noi, pur convinto che si stia diffondendo troppo antirenzismo in giro, sarebbe rimasto male vedendo il presidente dimissionario del Consiglio reagire con tanta ostinazione al tentativo di tenerlo in sella non per bruciarlo, ma nella convinzione, a torto o a ragione, di limitare i danni della crisi seguita al referendum costituzionale.

C’è qualcuno che è andato oltre la delusione di Mattarella, accusando Renzi di avere preferito far nominare alla guida del governo il buon conte Paolo Gentiloni Silverj per esserne ' il burattinaio', giocando cioè con interposta persona la partita di una nuova legge elettorale per strappare al presidente della Repubblica il ricorso alle urne entro giugno. Lo ha scritto nel suo editoriale di fine anno, guarda caso di nuovo, Eugenio Scalfari. Che, pur apprezzandone le capacità decisionali e il ' carisma', ha paternamente, o da nonno, invitato il segretario del Pd a darsi una calmata, come si dice a Roma, e a non ripetere con la fretta elettorale gli errori di valutazione commessi nella campagna referendaria sulla riforma costituzionale: una riforma che, pur pasticciata in alcuni passaggi, anche il fondatore di Repubblica, come il capo dello Stato, ha tanto volenterosamente quanto inutilmente votato, pensando che fosse meglio di niente.

Non deve aver fatto molto piacere a Mattarella neppure il merito rivendicato col solito orgoglio sopra le righe da Renzi davanti all’Assemblea nazionale del Pd di essersi ' dimesso tre volte in meno di 15 giorni'. La prima fu all’indomani del referendum, quando il presidente della Repubblica lo bloccò dicendogli che bisognava prima fare approvare definitivamente al Senato la cosiddetta legge di stabilità finanziaria. La seconda volta fu dopo quasi 48 ore, quando, approvata in tutta fretta quella legge ricorrendo al voto di fiducia, Renzi si ridimise rifiutando la proposta del presidente di farsi rimandare davanti alle Camere, visto che aveva appena dimostrato nella pur difficile aula di Palazzo Madama di disporre ancora della fiducia. La terza volta fu quando, concluse le consultazioni di rito al Quirinale, dove la delegazione del Pd era andata senza il segretario, Mattarella lo chiamò al telefono per tentare di convincerlo a ricevere lui l’incarico di formare il nuovo governo, anziché farlo conferire a Gentiloni: telefonata che forse il presidente avrebbe preferito rimanesse riservata.

Nel vantarsi di questi tre rifiuti in meno di quindici giorni, Renzi incorse anche in un grossolano errore storico dicendo che nella Dc, partito peraltro di origine della sua famiglia, nessuno sarebbe riuscito a fare altrettanto, a dir poco, in un secolo.

Povero Amintore Fanfani, toscano come Renzi, e indicato come modello una volta in Parlamento da una renziana di punta come l’allora ministra delle riforme e dei rapporti con le Camere, Maria Elena Boschi, ora sottosegretaria di Gentiloni a Palazzo Chigi. Si sarà rivoltato nella tomba il compianto professore di Arezzo, caduto e rialzatosi nella Dc tante volte, da vivo, che un altro toscano purosangue, Indro Montanelli, gli diede il soprannome di ' Rieccolo'. Che ora Renzi dovrà guadagnarsi. O riguadagnarsi, visto che, in verità, gli è già accaduto di cadere e di rialzarsi, perdendo nel 2012 le primarie con Pier Luigi Bersani per la candidatura a Palazzo Chigi e vincendo dopo un anno quelle per diventare segretario del partito e poi anche presidente del Consiglio.