Di fronte a Beppe Grillo che rilancia la vena antimodernista dei Cinquestelle inneggiando alla povertà e alla “decrescita felice”, e a Silvio Berlusconi che torna a divertirsi nelle cerimonie ufficiali e aspetta sempre più fiducioso la sentenza di Strasburgo che deve riconsegnargli l’onore politico; la scelta di Matteo Renzi è di tutt’altro genere: si inabissa. L’ex premier, infatti, ha deciso di uscire (momentaneamente, of course) di scena e dedicarsi ad altre attività che non siano la politica: va in piscina, fa spesa al supermercato, si cimenta con il triathlon. Si tratta di un periodo di decantazione e di decompressione sia politica che personale: a quanto pare, una volta recuperato in pieno l’ottimale stato psico- fisico, il segretario del Pd tornerà più forte di prima per indicare la strada più breve che porta alle urne.

I motivi di questa decisione appartengono in toto alla discrezionalità di Renzi. C’è anche chi, in vena di parallelismi storici, ha tirato in ballo Charles De Gaulle quando nel 1953, insoddisfatto della piega che avevano preso gli avventimenti, si ritirò nella residenza di Colombey- le- deux- Eglises e ci restò sei lunghi anni o quasi, fin quando cioè i maggiorenti della Quarta repubblica, travolti dallo smacco algerino, non andarono in pellegrinaggio a pregarlo di tornare. Cosa che il generale fece, vergando una riforma costituzionale che toglieva di mezzo la «dittatura parlamentare» ( definizione dello stesso rientrante) e consegnava poteri consistenti nelle mani del presidente della Repubblica eletto direttamente dai cittadini. Chissà se andrà così, se cioè Paolo Gentiloni si calerà nei panni di Chaban Delmas. E se il presidente attuale, Sergio Mattarella, sarà della stessa opinione.

In ogni caso - e più realisticamente - nell’epoca della comunicazione social, istantanea e totalizzante, i sei anni di ritirata di de Gaulle sono destinati a diventare tutt’al più sei giorni. La rigenerazione renziana, infatti, minaccia di essere troncata dallo stop obbligatorio derivante dalla pronuncia della Corte costituzionale che l’ 11 gennaio deciderà se ammettere o no i referendum sul jobs act. Si tratta del cuore del renzismo, e se la Consulta darà via libera è impensabile che l’ex presidente del Consiglio se ne rimanga in disparte. Se non altro perchè se lo facesse darebbe l’impressione di non volersi cimentare in una battaglia che potrebbe essere il bis del referendum costituzionale. il suo atteggiamento verrebbe cioè interpretato come un atto di debolezza e non certo di forza. Nè è verosimile che Renzi taccia dinanzi al voto sulle mozioni di sfiducia presentate da Cinquestelle, Lega e Sinistra Italiana nei riguardi del ministro Giuliano Poletti. Siamo nell’ambito dello stesso campo: le politiche sul lavoro. Ma con una dose di veleno in più. La sinistra dem che fa capo a Roberto Speranza, infatti, ha annunciato che se non ci sono modifiche alla legge sui voucher e sull’articolo 18, potrebbero unire i loro voti ai sottoscrittori della mozione e dire sì alla sfiducia.

Si potrebbe andare avanti, ma il senso è chiaro. In omaggio ad un impegno preso e ad una promessa fatta in tempi diciamo più facili, Renzi di fronte alla “strasconfitta” del 4 dicembre ha lasciato palazzo Chigi. Rimanendo però leader del Pd, ossia non solo del partito più grande d’Italia ma anche del perno sul quale, volenti o nolenti, poggia il sistema politico- istituzionale del Paese. Immaginare di conservare quella posizione e contemporaneamente di astenersi dall’intervenire sulle questioni politiche è inverosimile oltre che impraticabile: e questo Renzi lo sa benissimo.

Infatti il nodo vero non sta nella strategia di sapore morettiano del “mi si nota di più se non ci sono o il contrario? ”, quanto nella difficoltà di individuare una convincente piattaforma politico- programmatica da offrire non solo al Nazareno ma alla larga fetta di italiani che in Renzi ancora confidano. La realtà è che il corposo no referendario non si è portato via solo le proposte di modifica costituzionale della legge Boschi ma, anche e soprattutto, ha azzerato la storytelling dell’ex sindaco di Firenze. Renzi infatti più di ogni altra cosa era

le sue riforme. Cancellate quelle - prima i cambiamenti alla Costituzione e ora, forse, anche il jobs act - della visione renziana resta quasi nulla. O meglio, resta la rottamazione che tuttavia minaccia di travolgere proprio chi l’ha messa in campo.

Dunque nel mentre si impegna a fare la spesa e si cimenta nel trittico nuoto- ciclismo- corsa, Renzi deve anche pensare a cosa dire agli italiani, a quale sogno consegnare loro per sedurli di nuovo e riconvincerli a seguire le sue indicazioni. Sapendo che nel frattempo non di sogni bensì di ostiche realtà è fatta l’agenda del suo successore. E che si tratta di realtà che non consentono fughe o rimpiattini. Come è noto, in politica non esistono vuoti. Più Renzi si ritrae, più gli spazi lasciati liberi verranno occupati da Gentiloni e dalla sua azione di governo. La cinghia di trasmissione esecutivo- partito funzionerà così. Magari risulterà sbilenca: ma allo stato alternative non ce ne sono.