Al netto di tutte le critiche che Matteo Renzi si è meritate, spesso non tanto per il contenuto delle sue scelte quanto per il modo in cui le ha compiute e sostenute, sento in giro puzza di troppo antirenzismo politico, mediatico e, al solito, persino giudiziario. Giusto criticare Renzi ma c’è troppo antirenzismo

Al netto di tutte le critiche che Matteo Renzi si è meritate, spesso non tanto per il contenuto delle sue scelte quanto per il modo in cui le ha compiute e sostenute, com’è accaduto nel referendum perduto sulla riforma costituzionale, sento in giro puzza di troppo antirenzismo politico, mediatico e, al solito, persino giudiziario. Saranno stati magari soltanto casuali, a scanso di querele, ma non mi sembrano molto felici i tempi adottati dalla Procura di Napoli per aprire un altro capitolo processuale contro il governatore della Campania. Che era già caduto sotto le lenti d’ingrandimento della presidente della Commissione parlamentare antimafia, con tanto di richiesta di notizie ai magistrati, per la sua folcloristica partecipazione alla campagna referendaria favorevole alla riforma renziana della Costituzione.

L’invito ai sindaci amici della Campania a mobilitarsi nel referendum, usando argomenti più o meno convincenti per il loro interesse a non perdere occasioni considerate utili alle loro popolazioni, è costato al governatore regionale il sospetto o l’ accusa di incitamento al reato di voto cosiddetto di scambio.

La governatrice del Friuli- Venezia Giulia, Debora Serracchiani, nonché vice segretaria del Pd, anch’essa renziana, è appena stata così pesantemente e personalmente attaccata nell’assemblea della regione da trattenere a stento, o da non trattenere per niente, le lacrime.

A qualche allegra brigata di giustizialisti verrà magari la tentazione di travolgere il servizio d’ordine che ancora protegge l’ex presidente del Consiglio e di arrestarlo in nome del popolo: quello del no alla sua riforma appena bocciata. Un assaggio di questa fantasiosa gestione dal basso della presunta giustizia si è appena avuto davanti alla Camera, addirittura, ai danni dell’ex deputato forzista Osvaldo Napoli, aiutato dai Carabinieri a fuggire. Sembrava una commedia, ma non lo era.

Trovo francamente esagerato lo scandalo gridato contro l’appena confermato ministro del Lavoro Giuliano Poletti, renziano pure lui, che ha dovuto alla fine scusarsi del suo ' scivolone', per avere osato osservare - credo non per sfrontatezza ma per ingenuità - che il referendum in arrivo contro la riforma del mercato del lavoro, chiamata britannicamente Jobs act, potrebbe essere rinviato di almeno un anno se dovessero sopraggiungere le elezioni anticipate, come prescrive la legge.

Non è che lo scioglimento anticipato delle Camere sia una prospettiva arbitraria in una legislatura, se permettete, già sfigata di suo per il numero che porta: 17. Una legislatura che nel 2013 ha rischiato di morire già nella culla per i risultati elettorali, diversi fra Senato e Camera, nel modello del cosiddetto bicameralismo perfetto, o paritario, che sembra piacere tanto agli italiani, vista la schiacciante maggioranza con la quale l’hanno appena confermato.

Con tutto il rispetto che merita, per carità, la Cgil di Susanna Camusso, che lo ha promosso, e della Corte Costituzionale che si accinge a certificarne l’ammissibilità, il referendum per ripristinare il vecchio e famoso articolo 18 sui licenziamenti, e abrogare altre novità introdotte dalla riforma renziana del mercato del lavoro non sarebbe il primo ad essere rinviato con le elezioni anticipate, magari servite proprio o anche per questo.

Mi permetto di ricordare i casi del 1972 e del 1987, quando lo scioglimento delle Camere interruppe il conto alla rovescia dei referendum, rispettivamente, sul divorzio e sulla responsabilità civile dei magistrati, nonché sulla produzione di energia nucleare. Referendum politicamente e socialmente caldissimi, che le maggioranze parlamentari dell’epoca preferirono rinviare piuttosto che affrontare subito. E lo fecero in entrambi i casi col consenso dell’allora opposizione comunista, che pure non era solita fare sconti.

Nel 1987, a dire la verità, la maggioranza pentapartitica guidata a Palazzo Chigi da Bettino Craxi si spaccò sul problema delle elezioni anticipate perseguite con la solita ostinazione dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita. Che raggiunse il risultato voluto per l’atteggiamento consenziente è quella volta decisivo del Pci, passato dopo la morte dì Enrico Berlinguer alla conduzione di Alessandro Natta. Eppure la Dc aveva deciso di adottare un espediente a dir poco clamoroso. I suoi deputati si astennero nella votazione di fiducia su un governo monocolore Dc presieduto da Amintore Fanfani pur di fargli mancare la maggioranza e consentire all’allora capo dello Stato Francesco Cossiga, democristiano anche lui, di licenziare le Camere.

Con questi precedenti, non sembrano anche a voi esagerate le polemiche esplose sulla sortita del ministro Poletti a proposito del referendum su un tema così caldo politicamente e socialmente come la riforma del mercato del lavoro? Che arriva come uno tsunami sul terreno già sconvolto dai risultati di un altro referendum e dalla crisi di governo che ne è seguita. Una crisi chiusa peraltro troppo in fretta per essere scambiata per un vero, solido chiarimento politico. Cerchiamo di essere seri e di non prenderci in giro.

Qui occorrono più pompieri che piromani. C’è già troppo fuoco acceso per appiccarne altro cavalcando l’antirenzismo, come in passato si è cavalcato, nella storia della Repubblica, l’anticomunismo, l’antifascismo vedendo fascisti dappertutto, sino a infangare un antifascista com’era Randolfo Pacciardi solo perché presidenzialista, poi l’antifanfanismo, un po’ simile all’antirenzismo di oggi, poi ancora l’anticraxismo e l’antiberlusconismo. Ci fu anche un tentativo di mettere su, a destra, un antimoroteismo all’inizio della esperienza di governo di centro- sinistra, quando Enrico Mattei, omonimo del presidente dell’Eni, rimproverava al povero Aldo Moro la pressione bassa, gli orari di lavoro che ne derivavano a Palazzo Chigi, dove tutto cominciava tardi e finiva tardissimo, e persino un presunto scarso rendimento sessuale. Una vergogna, pace all’anima sua, di Mattei. Che nelle elezioni presidenziali del 1971 mi aggredì fisicamente a Montecitorio per avere convinto Giovanni Malagodi, secondo lui, a far votare Moro dai liberali per il Quirinale se ne fosse uscita la candidatura dalla Dc, ferma in quel momento su Fanfani e poi dirottata da Ugo La Malfa su Giovanni Leone.

L’antirenzismo sta ormai assumendo forme tali, anche a costo di fare implodere il Pd come ai tempi di Tangentopoli implosero la Dc e i soprattutto il Psi, che mi viene voglia di sperare che Massimo D’Alema non scherzasse, alla vigilia del 4 dicembre, quando disse, sicuro ormai della sconfitta di Renzi, che gli sarebbe toccato di difenderlo dai ' cani' che lo avrebbero azzannato. Parlo proprio dell’ex presidente, ex segretario dell’ex Pci, ex ministro degli Esteri rottamato nell’officina dell’allora sindaco di Firenze che scalava il Pd, Palazzo Chigi e qualsiasi altra cosa avesse una pendenza capace di stimolarne l’energia. Un Renzi d’altri tempi, che sta forse raccogliendo quello che ha seminato ma non per questo va scambiato per il diavolo, per Belzebù 2.0.