Quando si seppe della morte prematura di Walt Disney – era il pomeriggio del 15 dicembre 1966, cinquant’anni fa esatti – nel telegiornale che in Italia precedeva la “ Tv dei Ragazzi” la notizia venne accompagnata con le immagini dei sette nani disneyani che piangevano per la scomparsa di Biancaneve. Una notizia che fece piangere, anche da noi, tanti ragazzini per l’improvvisa perdita di un personaggio che veniva vissuto come una sorta di zio o tutt’al più un maestro buono e gentile. Il volto simpatico di quel signore veniva collegato ai fumetti di Paperino e Topolino, ai grandi film d’animazione che avevano trasportato i cartoon nel grande cinema, a tanti gadget e libri e, appunto, a una trasmissione televisiva che aveva introdotto anche da noi l’intrattenimento per i ragazzi, il Mickey Mouse Club, dove spesso il grande Walt appariva per introdurre i documentari, i cartoni animati o alcuni telefilm come La spada di Zorro. Quel programma – trasmesso in Italia dal ’ 62 in avanti – è stato del resto il prototipo stesso della televisione per i minori. La sigla di apertura e di chiusura era costituita da un cartone animato in cui Topolino dirigeva una banda, formata da tanti dei personaggi creati da Disney, che suonava e cantava la Marcia di Topolino composta da Jimmy Dodd. Una marcia talmente famosa per un paio di generazioni – sostanzialmente quelle del baby boom – che Kubrick la farà cantare alle reclute nel suo Full Metal Jacket del 1987.

Ecco, dovendo parlare di Walt Disney nel cinquantenario della sua scomparsa è forse assai utile sottolinearne più che la biografia la straordinaria influenza sull’immaginario della generazioni occidentale nate a partire dagli anni Quaranta del ’ 900. « Che senso avrebbe diventare governatore o senatore se posso essere il re di Disneyland? » , disse una volta di se stesso Walt. Tutti d’altronde lo conoscevano come il “ mago di Burbank”, dal nome del sobborgo di Los Angeles dove Disney si era acquartierato con le sue due società, la Walt Disney per la produzione e la Buena Vista per la distribuzione. E poi tutto il resto: la creazione di centinaia di eroi dei fumetti e dei cartoni animati – la cosiddetta Banda Disney, da Paperino a Cip e Ciop, da Topolino a Pippo, Pluto, Nonna Papera e Zio Paperone – a personaggi di celluloide – da Mary Poppins a Toby Tyler, dal Maggiolino tutto matto al Pirata Barbanera – sino a lungometraggi animati e non, libri per bambini, documentari, un canale tv e la creazione dei parchi tematici come Disneyland e Disneyworld. Una rivoluzione dell’immaginario, quella messa in moto da Disney, che è riuscita a entrare nella vita quotidiana di tutti noi. Tanto che poi in molti hanno parlato di una vera e propria “ filosofia Disney”. Insomma: più che un disegnatore, o regista, o produttore, o imprenditore, o sceneggiatore, Walt fu soprattutto un cantastorie del ’ 900, un affabulatore con il genio assoluto del rinnovamento dei mezzi d’espressione.

Nato il 5 dicembre del 1901 in un quartiere periferico di Chicago, quarto di cinque fratelli, allo scoppio della Grande Guerra cercò in tutti i modi di arruolarsi: « Non voglio che i miei nipoti – ricorderà anni dopo Disney – mi chiedano perché non ho fatto la guerra » . Tanto fece che alla fine venne accettato: non proprio nell’esercito, come sperava, ma soltanto nella Croce Rossa, come autista di autoambulanza. Eppure bastò. Nel clima incandescente delle trincee europee, il giovanissimo Walt scoprì la sua vocazione: iniziò a creare manifesti e disegni per i soldati e, una volta, tornato in patria, decise che la sua missione era proprio quella. Nel giro di pochi anni fondò dal niente – tra cinema di animazione e non e fumetti – un impero economico e culturale che, continuando a crescere anche dopo la sua stessa morte, è oggi uno dei principali brand dell’immaginario universale. Un vero e proprio “ universo alternativo”, con un simbolo illuminante: l’inconfondibile marchio della Disney è nientemeno che uno dei fantasmagorici castelli costruiti a suo tempo da Ludwig di Baviera.

La chiave di quell’immaginario è stata spiegata molto bene dal filosofo e narratore canadese John Ralston Saul: « Disney ha promesso un paradiso terrestre ma a differenza di Marx ha mantenuto la parola » . La prova? « Non è mai esistito uno Stato comunista: quelli sedicenti tali erano semplicemente dittature di vecchio stampo, inefficienti e autoritarie » . Se il marxismo teorico, quindi, poteva apparire nelle società occidentali come un sogno, « c’erano – sempre secondo Saul – altri sogni che sarebbero andati altrettanto bene. Walt Disney, ad esempio, cavalcando le frontiere della mitologia, convertì l’America a una concezione di se stessa in cui il cittadino è uno spettatore, la fede un’asserzione cinematografica, i leader attori caratteristi. Per la vita reale – conclude il filosofo – questo rappresenta un risultato più rilevante che non i sistemi o le ideologie » . Mitologia antica e medievale più moderna società dello spettacolo, insomma. O, meglio: un sistema mitopoietico in grado di dare un’anima alla società dello spettacolo.

Una filosofia, quella disneyana, che si esprimerà in forma compiuta nelle fantasmagoriche città del divertimento scaturire da quella visione: Disneyland, Disneyworld e – dal 1992 – l’Eurodisney poi chiamata Disneyland Paris. Tradizione e modernità, mito e tecnologia, fantasia e razionalità: questa la ricetta disneyana. Una ricetta il cui fascino è stato raccontato e interpretato dall’antropologo francese Marc Augé, dopo una sua visita a Disneyland: « Noi vi facciamo l’esperienza di una pura libertà, senza oggetto, senza ragione, senza posta in gioco. Non vi ritroviamo né l’America né la nostra infanzia, ma la gratuità assoluta d’un gioco d’immagini in cui ciascuno di coloro che ci sono accanto ma che non rivedremo mai può mettere quel che vuole… » . La sintesi culturale realizzata da Disney aveva sicuramente dalla sua – e ha tuttora – una straordinaria capacità di penetrazione globale.

C’è poi sullo sfondo delle storie a fumetti o cinematografiche raccontate da Disney un disprezzo della logica storicistica a una dimensione che fa emergere una visione della Storia non certo lineare, più prossima al mito che alla realtà, più a spirale che non circolare. Nel suo libro Il medioevo secondo Walt Disney lo storico Matteo Sanfilippo ha mostrato come il “ mago di Burbank” « volesse ricreare la storia nei suoi spettacoli, ma non nel senso di ripeterla per gli spettatori moderni, bensì rifacendola in meglio. Ricreare il passato per emendare e migliorare il presente e soprattutto il futuro » . Lo stesso medioevo disneyano – quello della trilogia nordica dei grandi film Biancaneve, Cenerentola, La bella addormentata nel bosco – è, infatti, tutto fuorché filologico: castelli ottocenteschi, di stampo francese, armature neogotiche, magia bianca e magia nera. Un medioevo da fiaba. Un medioevo moderno. Non a caso, nell’ultima scena del film La spada nella roccia, il Mago Merlino torna a cavallo d’un missile da un viaggio nel futuro, dopo aver partecipato a un convegno di magia nella Honolulu del Ventesimo secolo, indossando scarpe da tennis e camicia hawayana. E giudica il ’ 900: «Un bel guazzabuglio moderno!».