Comincio a pensare che il libro-scandalo di Salvo Riina, figlio di Totò, boss di mafia corleonese, meriti di vincere l’edizione 2016 del Premio Strega, il più ambito riconoscimento letterario che questo nostro paese possa offrire a un narratore della Nazione. Anche gli argomenti contenuti nelle pagine di Riina family life (Anordest edizioni) sembrano pertinenti con i grandi, immancabili e prioritari gusti etici nazionali: la Famiglia. Non c’è d’altronde bisogno di rammentare che, secondo le parole di Leo Longanesi, sul nostro tricolore, in luogo dell’intemerato blasone sabaudo, avremmo dovuto concepire proprio il semplice motto “Tengo famiglia”. Ergo, la famiglia come tema assoluto, di più, come portentosa, sacra, immancabile combinazione che apre ogni cassaforte del riserbo morale.    “Perché l’hai fatto?” E il reo, o perfino il semplice passante sfiorato dal sospetto: “Sai, l’ho fatto per i miei”. Di fronte a simili, disarmanti, risposte, d’altronde, precipitano le obiezioni ulteriori.    Adesso gli appassionati di vera letteratura, i tradizionalisti, i puristi, i guardiani dell’aoristo, perfino con una certa dose di ragione, obietteranno che il tomo di Riina jr. non è esattamente un’opera di grande poesia, e dunque, per lo Strega, sarebbe più opportuno guardare verso i narratori veri e propri in lizza: un Edoardo Albinati con “La scuola cattolica” (Rizzoli), anche questo, fra l’altro, un “romanzo della nazione” che muove dalla memoria del “delitto del Circeo” (settembre 1975) per tracciare una mappa autobiografica del paese. Tutto vero, il valentissimo, il fluviale, l’inarrivabile Albinati, con le sue 1294 pagine, mostra tutti i quarti di nobiltà editoriale, tuttavia nel libro di “Salvuccio”, se permettete, c’è comunque più sangue, maggiore aderenza alla realtà, perfino più letteratura nella sua declinazione “reality”, se non proprio verità assoluta: “Io di mafia non parlo, se lei mi chiede cose ne penso non le rispondo, io rispetto mio padre perché non mi ha fatto mancare niente, principalmente l’amore”.      Adesso non mi obbligherete certo a spiegare che con l’arrivo dello sperimentalismo del Gruppo 63 (compagine d’avanguardia che tra i suoi autori offre Eco, Arbasino, Balestrini, Manganelli e perfino Angelo Guglielmi che ha trasformato RaiTre nei suoi “Promessi sposi”) la concezione romanzesca è assai mutata, scoprendosi ben più duttile e fluida; in breve, perfino la testimonianza autobiografica, anche se non letterariamente perfetta, può ambire all’attenzione filologica, appunto, al riconoscimento, al premio, al battesimo a bagno del liquore omonimo.    Spiego meglio: noi non sappiamo se Matteo Renzi, attualmente massimo autore di se stesso, riuscirà a realizzare il suo capolavoro narrativo – anche nel suo caso politico si parla di “narrazione” e di “storytelling”, ovvero il Partito della Nazione – ma siamo invece certi, restando in ambito letterario, che la medesima impresa non è invece riuscita a un altro campione laureato della narrativa odierna, Maurizio Maggiani, lui che, tautologicamente, dunque sempre  renzianamente, ha addirittura titolato la sua ultima fatica proprio “Il Romanzo della Nazione”: con risultati da buco nell’acqua. Salvo smentite, infatti, non sembra che il suo libro abbia sostituito, metti, la “Gazzetta dello Sport” o YouPorn, tra le letture predilette dei nostri dirimpettai. E’ andata così nonostante quelle maiuscole imposte al titolo.     Il prestigioso e ambito Premio Strega, già assegnato negli anni dagli “Amici della domenica” a Flaiano, Pavese, Buzzati, Morante e poi, precipitando sempre più giù, a Enzo Siciliano e Francesco Piccolo, lo Strega, sorta di Festival di Sanremo della letteratura, specie di “Ballando con le stelle” letterarie, con tutte le soddisfazioni, ma anche le tragiche controindicazioni del caso, è bene insomma che plani adesso sul libro dell’erede Riina, costui ne è già paradossalmente il vincitore morale.    Nella cornice ora gaddiana ora dorotea ora felliniana ora veltroniana del Ninfeo di Valle Giulia, dove ha luogo la cerimonia finale del premio, occupata immancabilmente dal tragico “generone” capitolino che soprattutto si distingue nell’assalto al buffet sponsorizzato, Riina saprà invece riportare ogni cosa alle giuste proporzioni, alla bieca realtà.    In assenza di un mondo intellettuale che sappia mostrare lo stesso coraggio civile che animava un tempo il nazionalista D’Annunzio, o piuttosto il marxista Pasolini, non ci resta che “Salvuccio”. Una vittoria a futura memoria del conformismo e dell’opacità della società intellettuale italiana.