Lasciate Sant’Agostino o voi ch’entrate. Sì, perché Roberto Andò lo usa solo come passepartout nel titolo, ma poi preferisce accantonarlo ne Le confessioni, in favore di un film a tesi che si divide tra l’essere un “Todo Modo for dummies” e un’indagine su tanti ministri dell’Economia al di sopra di ogni sospetto. Petri c’è e si sente nell’opera del cineasta, ma viene declinato in una riflessione molto più binaria sul Potere, che qui si fa metafisico solo nella sua espressione e non nella sua essenza, come appunto nell’immaginifico e vibrante capolavoro di Elio Petri. Non c’è nobiltà e ascesi in questo G8, neanche nel monaco certosino Salus, ma solo una partita a scacchi tra due diverse teologie: quella dei numeri e quella dell’etica più o meno spirituale, portati alla loro visione e versione essenziale, alla ragnatela di rapporti, ricatti e riscatti in cui tutti, anche i “grandi”, sono solo pedine. Buoni o cattivi che siano.Roberto Andò torna nelle sale il 21 aprile dopo quasi tre anni da “Viva la libertà” e parla ancora di politica. Laddove nel penultimo lungometraggio con ironia e un approccio a suo modo fiabesco cercava il cuore del potere, qui invece ne indaga il cervello, la logica meschina e basilare. E si perde, così, l’agilità di quell’opera geniale e a suo modo lieve a favore di un sermone cinematografico sul lato oscuro dei potenti, sul loro essere schiavi della soluzione più grave, facile, apparentemente necessaria e ineluttabile. Non c’è speranza né visione, qui, ma solo il requiem composto di un capitalismo fallimentare, almeno sotto il profilo morale ed etico, sempre alla ricerca di nuove regole truccate – di cui i sacerdoti sono proprio questi ministri – per vincere barando.«E’ un privilegio poter interrogare la politica in modo diretto, libero, diverso, sparigliando le carte con gli strumenti umani del dubbio, con l’arte, la religione, con un tono diverso che non sia ideologico», afferma Andò in conferenza stampa, e ha ragione. E forse proprio per questo il regista avrebbe dovuto ritrovare la felicità di racconto del lungometraggio precedente: e invece tanto era un romanzo appassionante ed entusiasmante, per quanto feroce, quello, tanto questo è un saggio, un’analisi che non riesce mai a smettere di essere fredda come la sua location, un albergo che vuole esprimere l’isolamento ossessivo e ostinato a cui si confina il Potere, per evitare il confronto con il mondo, allo scopo di condizionarlo.Il monaco Salus, un efficace Toni Servillo che in fondo, nel senso profondo del personaggio non è poi lontano dal Titta di Girolamo de “Le conseguenze dell’amore” di Paolo Sorrentino, viene invitato al G8 dei maggiori ministri dell’Economia, chiamati a una decisione draconiana che creerà un’altra Grecia. Con lui una scrittrice per bambini (Claire Seth) e un rocker. Volendo fare una battuta, Andò chiama in questo consesso l’equivalente di Papa Francesco, J. K. Rowling e Bono, una sorta di pantheon veltroniano che dovrebbero rappresentare lo sparigliamento della cultura più o meno pop e della religione che più ci piace (anch’essa piuttosto pop).Salus raccoglie la confessione del direttore del Fondo Monetario Internazionale, scatola nera di un’alleanza diabolica che nessuno vuole ma tutti subiscono, e la prematura scomparsa del secondo lascia all’uomo di religione una carta da giocare nella mano a poker di quel G8. E’ qui, forse, la maggiore delle provocazioni intellettuali de Le confessioni: l’uomo in tonaca, che risponde a un Dio etico, e l’uomo in giacca e cravatta, che obbedisce solo al Dio denaro, si confrontano. Noi scorgiamo una parte del loro confronto, siamo costretti a immaginare molto e a riempire di senso e significato il loro duello. Sono entrambi consapevoli di essere ministri di due divinità assolute, a loro modo, hanno in sé il dubbio e la certezza di essere mezzi di un bluff a cui hanno consacrato la loro esistenza: troppo simili per quanto possono sopportare le loro ostentate diversità. Servillo è bravissimo a incarnarlo, non si accontenta della teologia, che strumentalizza come le regole del suo credo: il suo voto di silenzio è assordante, il segreto del confessionale diventa più eloquente di qualsiasi rivelazione, il suo Dio non è in grado di vincere la partita a dadi contro il Potere, e allora è la sua umanità in tonaca a fare la differenza. Dall’altra parte Daniel Auteuil, come ne il Napoleone di Virzì, diventa il simulacro di un Sistema a suo modo grottesco, di un segreto di Pulcinella di cui è cosciente e che fotografa in un’equazione che assume centralità solo per il ruolo che il mondo dà a lui. A dimostrazione che neanche ai numeri sono consacrati i potenti. Sono due prestigiatori che hanno in mano tutto, e quindi nulla. Ma basta per cambiare il mondo e costringerlo a più miti consigli. O forse solo all’ennesimo compromesso.Andò ha il pregio di un approccio lucidamente ingenuo, di spogliare e demitizzare ciò che chiamiamo Politica e Potere, per sfidare lo spettatore a prenderne coscienza, a non sentirsi vittima predestinata di ciò che non capisce. Ma la sua voglia di mostrarci la scacchiera ci impedisce di entrare in partita e Servillo, che qui non si sdoppia né si espone alle contraddizioni del (suo) mondo ma rimane anzi granitico baluardo di una giustizia superiore, condiziona il film, lo lascia freddo e bidimensionale, impedisce al grande racconto di esplodere e invece rimane una lugubre coreografia.Servillo, con pudore, dice “spero che il pubblico goda dell’opportunità data da Salus di entrare in zone segrete”. Ecco, non abbastanza. E’ questo che manca a Le confessioni, il gusto del gioco del cinema che sparigli davvero le carte, a favore di un giallo hitchcockiano formalmente ben fatto ma impossibile da sentire dentro, addosso.