Che fine fa la vocazione maggioritaria? L’ha citata Matteo Renzi ed è la peculiarità nonchè l’anomalia di questa crisi di governo. In altre parole, la bocciatura della riforma rischia di distruggere anche la ragion d’essere del Pd: costruire una forza politica in grado di sfiorare la metà dei voti e che sia la casa comune di tutti i filoni del riformismo italiano.

L’Italicum serviva a produrre questo risultato: ballottaggio tra le prime due liste e recinto obbligato al confronto politico. Tutto il contrario del perimetro disegnato dai padri costituenti, che non a caso trovava il suo alveo ideale nel sistema proporzionale. Il No al referendum ha rigettato questo paradigma maggioritario e la debàcle di Renzi è stata doppia: personale e di prospettiva.

Mentre ieri al Quirinale salivano i presidenti delle due Camere e Giorgio Napolitano, king maker di tutti gli ultimi passaggi politici, si è aperto lo scontro finale tra difensori del maggioritario e cantori del nuovo ( vecchio) spartito proporizionale. In questo scenario, Matteo vuole mantere l’iniziativa per scrivere la nuova legge elettorale. Ma c’è un problema: per farlo, il posto migliore è palazzo Chigi. Eppure rimanerci significherebbe rinnegare la sua immagine di “ diverso” da tutti gli altri leader politici.

C‘è stato un passaggio nel monologo ( o forse un flusso di coscienza?) di Matteo Renzi di fronte alla Direzione del Pd che è passato semi inosservato, travolto dalla possanza degli altri temi in ballo ( però ignorati) e, soprattutto, dall’urgenza dell’appuntamento sul Colle dal capo dello Stato per le dimissioni. Si è trattato di un passaggio ben annidato tra gli arabeschi autocelebrativi e le staffilate alla minoranza, che tuttavia aiuta ad inquadrare la peculiarità nonché l’anomalia di questa crisi di governo ( visto che, per dirne una, una maggioranza c’è e si autofiducia tre ore prima sulla manovra economica) e l’importanza del suo sbocco. E’ successo quando il premier, parlando dei risultati del referendum, si è domandato quale possa essere il destino di un partito « a vocazione maggioritaria » nel quadro delle regole costituzionali scritte nel 1948 e che gli italiani hanno voluto restassero intangibili.

Ecco, appunto. Al di là dei discutibili aspetti caratteriali e dei numerosi errori che ha fatto, l’arroccamento di Renzi sul voto subito trova spiegazione anche nel fatto che tra i detriti che la bocciatura della riforma si porta con sè minaccia di esserci la caratteristica principale del Pd, la ragione stessa per cui è nato: costruire una forza politica in grado di arrivare da solaoltre il 40 per cento dell’elettorato fino a sfiorare la metà dei voti. Un partito che potesse diventare la casa comune di tutti i filoni del riformismo italiano.

Già il tripolarismo del 2013, originato dell’avvitamento patologico del centrodestra a trazione berlusconiana con l’annessa travolgente ascesa del Movimento 5 stelle, aveva sostanzialmente affossato quello schema. Renzi aveva tentato di riprodurlo attraverso l’Italicum e il suo cuore pulsante: il ballottaggio tra le prime due liste. In modo da costruire un recinto obbligato al confronto politico: due - e solo due - poli che si contendono il potere. Anche a costo di diventare il polo soccombente: meglio perdere ma lasciare intatto lo schema piuttosto che mandare in soffitta la ragione sociale dei Democrat. Tutto il contrario del perimetro disegnato dai padri costituenti che non a caso trovava il suo alveo ideale nel sistema proporzionale. Vent’anni di bipolarismo farlocco, patologicamente imperniato sull’asse Berlusconi sì- Berlusconi no, hanno fatto il resto. L’Ulivo e le sue varie filiazioni fino, appunto al Pd, dovevano rappresentare l’antitodo ad una situazione evidentemente sfuggita di mano.

E invece la personalizzazione del referendum, scelta improvvida se non altro per questo motivo, è stata rigettata alla grande dagli elettori, e di conseguenza ha riportato indietro le lancette dell’orologio. La debàcle, dunque è stata doppia: personale e di prospettiva.

Se le cose stanno così, se cioè quel 60 per cento di No ha affossato per chissà quanto la vocazione maggioritaria, Renzi per completare il proprio autoaffondamento non ha che da seguire i consigli che gli arrivano dai suoi aficionados del Foglio: prendere l’ultra proporzionale Consultellum del Senato, cioè il meccanismo elettorale come emendato dalla Corte Costituzionale, ed estenderlo ad entrambi i rami del Parlamento. Sarebbe il trionfo del “ ciascuno per sè”, l’enfatizzazione della rappresentanza ( con il sistema della Prima repubblica bastavano 500 mila voti per avere un pugno di parlamentari) a scapito della governabilità.

Dunque, mentre ieri al Quirinale sono saliti prima i presidenti delle due Camere Laura Boldrini e Pietro Grasso, e per finire Giorgio Napolitano, king maker di tutti passaggi politici degli ultimi tre lustri, nei meandri del Palazzo prende corpo lo scontro finale, quello che oppone i difensori dell’impianto maggioritario con i cantori del nuovo ( vecchio) spartito proporzionale. E’ una faglia che spacca trasversalmente le maggiori forze politiche e che vede all’opera stentorei tenori e avvolgenti sussurratori, ognuno convinto di recitare la parte principale e risolutiva. Fa a fettine il Pd, con tanti che sono fautori del paradigma da vecchio Biancofiore. E terremota pure Forza Italia anche se le etichette in questo caso sono diverse: “ sovranisti” contro “ comunitari”. Perfino i Cinquestelle, nel loro continuo volteggiare, non sono immuni.

Renzi gioca alla play station a casa sua con i figli e rimugina le sue convinzioni: prima fra tutte la convenienza a guidare in prima persona i processi politici pena il definitivo oblio che, Matteo sa, verrà attuato nei suoi confronti in modo piuttosto ruvido, diciamo lo stesso che finora ha usato con gli altri. In altri termini diventa fondamentale che il bastone dell’iniziativa per scrivere la nuova legge elettorale e andare alle urne resti saldamente in suo pugno. Senza staffette di alcun tipo. C’è però un problema. Che per riuscirci, o almeno avere le chances più adeguate, la postazione migliore è quella di palazzo Chigi. Se Renzi esce di lì e accetta un nuovo esecutivo guidato da un altro, chiunque sia, il suo potere di interdizione si riduce drasticamente. Al punto che se lascia la poltrona di premier diventa oltremodo pencolante anche quella che gli spetta al Nazareno. Meglio restare dov’è ora, dunque. Però, però... Un problema ci sarebbe. Non aveva Matteo stesso detto di essere diverso da tutti gli altri leader politici, di non voler stare incollato alla cadrega, di dimettersi senza se e senza ma se avesse perso il referendum? E adesso come fa a rimangiarsi tutto? In queste condizioni l’appello alla vocazione maggioritaria è un kalashnikov o un fucile a tappi?