Il povero Stefano Parisi, non so se più disinvoltamente o più coraggiosamente tornato in televisione a svolgere la propria missione, anche dopo l'erba tagliatagli sotto i piedi da Silvio Berlusconi per avere troppo polemizzato col segretario leghista Matteo Salvini, difendendo peraltro lo stesso Berlusconi dai suoi attacchi, non è il primo né sarà l'ultimo della lista, diciamo così, delle vittime politiche dell'ex presidente del Consiglio. Sulle cui scale si può salire con la stessa facilità con la quale si può rotolare.Ad aprire questa lista fu quasi all'esordio dell'avventura di Forza Italia Vittorio Dotti, l'avvocato milanese dello stesso Berlusconi e delle sue aziende, promosso seduta stante nel 1994 capogruppo della Camera.Il poveretto scivolò su una battuta dichiarandosi "l'avvocato degli affari legali" dell'ormai presidente del Consiglio. Tanto bastò ai giornalisti più maliziosi per considerare illegali, o meno legali, gli altri affari di Berlusconi di cui si occupava a Roma l'avvocato Cesare Previti. Che nel frattempo era diventato ministro della Difesa, avendo l'allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro rifiutato di nominarlo ministro della Giustizia, come Berlusconi invece gli aveva proposto.Già compromessa di suo per questo infortunio, la situazione di Dotti precipitò per non avere egli saputo o potuto trattenere la fidanzata Stefania Ariosto dalle visite alla Procura di Milano e altrove per raccontare di Previti - sempre lui - e dei suoi rapporti con i magistrati storie destinate a farlo condannare. E a procurare a Berlusconi non pochi guai, fra i quali quel mezzo miliardo di euro pagati a Carlo De Benedetti per l'affare Mondadori, o guerra di Segrate.Insieme con Dotti, Previti e altri avvocati arrivò a Montecitorio nel 1994 sotto le insegne di Forza Italia anche Tiziana Parenti, chiamata "Titti la rossa" per il diminutivo del suo nome e il colore dei capelli. Ma la celebrità e gli apprezzamenti di Berlusconi glieli aveva procurati la tormentata esperienza di magistrata nella Procura di Milano. Dove lei sosteneva di essere stata a dir poco emarginata per avere reclamato indagini più severe sulla partecipazione anche del partito comunista, e dei suoi dirigenti, alla diffusissima pratica del finanziamento illegale della politica.Insediatasi più o meno trionfalmente alla presidenza della Commissione parlamentare antimafia, succedendo all'ultrafamoso e temuto Luciano Violante. La Titti cominciò a dare pensieri e dispiaceri ai colleghi di partito e di gruppo raccomandando attenzione, anzi vigilanza maggiore nella organizzazione del partito nei territori a maggiore densità criminale, dove la corsa per saltare sulla diligenza del vincitore poteva farsi più convulsa e pericolosa.Ricandidata nelle elezioni successive, e anticipate, nella speranza di acquietarne finalmente il carattere, che aveva fatto sospettare a qualcuno dell'entourage del Cavaliere che non fosse poi esagerata la diffidenza mostrata verso di lei dagli ex colleghi della Procura milanese, la Titti non si calmò per niente. E decise ad un certo punto di togliere il disturbo accasandosi in quella specie di purgatorio o di sala d'attesa che è in Parlamento il gruppo misto.Altrettanto difficile fu la convivenza politica con Berlusconi di un avvocato di grido come Raffaele Della Valle, assurto alla vice presidenza della Camera ma convintosi, ad un certo punto, d'intendersi anche di economia, al punto di manifestare qualche riserva su una legge finanziaria. Lo sgomento fu irreversibile. L'avvocato, d'altronde, non sarà stato un economista di rango, ma sapeva fare abbastanza di conto per capire che ad essere deputato ci rimetteva troppo come legale.Un altro capitolo scabroso fu quello di Carlo Luigi Scognamiglio Pasini. Che con quel nome così lungo già metteva soggezione di suo, per cui Berlusconi lo candidò subito nel 1994 alla presidenza del Senato, nonostante il consiglio datogli da un amico di vecchia data di lasciare al suo posto il vecchio, pacioso e già ammalato Giovanni Spadolini. Al quale mancò poco che morisse in aula quando al riconteggio dei voti, impallidendo, dopo avere già ricevuto qualche congratulazione per la conferma, si accorse di avere perduto per una sola miserabile scheda.L'esordio del nuovo presidente sullo scanno più alto di Palazzo Madama fu davvero dandy. Egli parlò all'assemblea con una mano in tasca, fra lo stupore specie dei funzionari, abituati ad altro. Ma tutto doveva cambiare con la cosiddetta seconda Repubblica, anche se Scognamiglio fece rispolverare una vecchia carrozza ferroviaria ex reale, credo, per usarla nei suoi spostamenti. E avvalersi anche, fra qualche fastidiosa ma periferica polemica, del diritto di far fermare il convoglio su cui viaggiava in una stazione non programmata negli orari.A dispetto delle novità attese con l'avvento di un'altra era, il primo governo Berlusconi entrò rapidamente in affanni. E prima ancora che cadesse sotto i colpi di Umberto Bossi, cominciarono a circolare le solite voci su quale tipo speciale di governo potesse prenderne temporaneamente il posto, in attesa di elezioni anticipate. "Un governo istituzionale", si mormorò subito. E quale governo più istituzionale potrebbe esserci - si disse- più di quello affidato alla seconda carica dello Stato? Che era il presidente del Senato, diventato nel frattempo più alto e distaccato di quanto già non fosse, sino a insospettire il già furente presidente uscente del Consiglio, a torto o a ragione, almeno secondo le voci di palazzo, che l'amico ci avesse messo del suo per candidarsi.Fondate o no che fossero i sospetti e le voci, l'unico governo di transizione al quale Berlusconi, una volta caduto, diede via libera al capo dello Stato fu quello tecnico presieduto dal suo ex ministro del Tesoro Lamberto Dini.Scognamiglio riuscì comunque a tornare al Senato con Forza Italia anche nella legislatura successiva, ma decidendo nel 1998 di aderire ad un partitino improvvisato dall'immaginifico Francesco Cossiga, composto da fuoriusciti dal centrodestra, per assicurare una maggioranza al governo di Massimo D'Alema. Dove Scognamiglio diventò ministro della Difesa partecipando alla cosiddetta guerra dei Balcani.Cossiga, come al solito, si stancò subito, a torto o a ragione, della creatura governativa partorita dalla sua fantasia e alla fine della legislatura, nel 2001, chiese a Berlusconi di ricandidare nelle sue liste il povero ex tutto Scognamiglio. Ma Il Cavaliere, che pure per il presidente emerito della Repubblica aveva un debole, sino ad accettarne le battute più urticanti avvolte nella solita stagnola dell'amicizia, quella volta gli disse no. Tutto ma non questo, fu all'incirca la risposta riferitami una volta dallo stesso Cossiga.Facciamo a questo punto un passo indietro per tornare al governo tecnico di Dini, dove entrò come ministro della Giustizia, scelto personalmente dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, l'ex procuratore generale della Corte d'Appello di Roma, fresco di pensione, Filippo Mancuso. Il quale mi confidò dopo qualche anno che Berlusconi, benedett'uomo, si era presa "una cotta" di lui. E con ragione, debbo riconoscere, perché, da imprevedibile com'era, anche a costo di rompere con Scalfaro e di essere sfiduciato dal Senato con una votazione inutilmente contestata davanti alla Corte Costituzionale, il guardasigilli Mancuso aveva mandato i suoi ispettori in quel sacrario che era diventato nella cronaca giudiziaria italiana il tribunale di Milano.Naturalmente alla prima occasione utile, nelle elezioni del 2001, Berlusconi portò alla Camera come un eroe Mancuso. Che, sempre imprevedibile, ebbe il torto dopo un po' di dissentire da Berlusconi per il troppo peso che dava all'amico Previti, sotto processo, sino a sposarne politicamente un candidato alla Corte Costituzionale. Un candidato che Mancuso si rifiutò pubblicamente di votare dopo averne trovato scritto il nome su una specie di ordine di servizio distribuito ai parlamentari del gruppo poco prima della ripresa dell'apposita seduta congiunta delle Camere.Così finì anche la storia dei rapporti fra Berlusconi e Mancuso, meno rumorosamente comunque di quella con l'avvocato Carlo Taormina. Che ebbe la curiosa pretesa di continuare a difendere un imputato di malavita organizzata anche facendo il sottosegretario all'Interno. Tutt'altra storia insomma da quella di Mancuso. Le ultime notizie politiche che ho dell'amico Taormina lo danno, spero a torto, se mi permette, dalle parti di Beppe Grillo.Non è possibile naturalmente chiudere questa rievocazione delle separazioni politiche da Berlusconi, se non le vogliamo chiamare vittime, senza ricordare Angelino Alfano, promosso segretario dell'allora PdL dal Cavaliere in persona, dimessosi da ministro della Giustizia per svolgere meglio, a tempo pieno, il nuovo incarico e sentitosi declassato dopo un po' a mezzo stampa col famoso annuncio di mancare del necessario "quid". Con tutto quello che poi ne seguì naturalmente tre anni fa. Poi è stata la volta, notoriamente, di Denis Verdini: l'uomo che per il suo avvicinamento a Renzi ha fatto saltare tutti i sismografi del Pd.Mentre scrivevo a Montecitorio questo articolo mi si è avvicinato il vecchio amico Antonio Martino. Che, saputo di che cosa stessi occupandomi, è scappato via ridendo e facendomi gli "auguri".Ebbene, dovete sapere che Martino è l'unico col quale Berlusconi non è riuscito a rompere pur avendone spesso ricevuto impietose critiche, in pubblico e in privato. Come quella volta in cui l'ex ministro degli Esteri e della Difesa, per il quale nessuno era riuscito a trovare la presidenza di una commissione parlamentare per metterne a frutto esperienza e saggezza, gli scrisse: "Caro Silvio, vedo che ti circondi di giovani donne con molto seno e poco senno".