Un uno-due d'altri tempi: tempi di Bicamerale. Con una distorsione insanabile e stordente rispetto a quel 24 gennaio del 1997 quando la Commissione per le riforme fu istituita: i protagonisti-dioscuri sono gli stessi, ma gli argomenti usati sono l'opposto di quelli di allora. E per di più adesso stanno dalla stessa parte: quella del No. Tra sabato e domenica scorsi, in un paso doble durato 48 ore, Silvio Berlusconi e Massimo D'Alema dalle colonne del Corriere della Sera hanno sciorinato i loro argomenti per bocciare la riforma costituzionale targata Matteo Renzi. D'Alema ha buttato a mare - ma lo aveva già fatto, con molto più clamore, nel 2014 sempre sul Corriere, bollando senza pietà «la voglia di offrire un retroterra teorico tanto nobile quanto anacronistico» al neo costituito governo Renzi - la terza via clintoniana (corsi e ricorsi...) da lui sottoscritta a Firenze nel 1999. Berlusconi ha seppellito - ma anche qui era già successo: con il patto del Nazareno e la scelta di Marchini a Roma - il centrodestra che fu, marchio di fabbrica della sua folgorante ascesa politica con l'annesso capolavoro della ricucitura con la Lega di Bossi che gli valse la riconquista di palazzo Chigi nel 2001.Dal 1994 ad oggi sono sempre lì, entrambi protesi a dettare la linea: roba che il Matteo ex sindaco si frega le mani per la contentezza di poter schierare l'artiglieria contro i rottamati che non vogliono farsi da parte, mentre il Matteo ex felpato lucida la divisa orgogliosamente mostrata in piazza di capo del trumpismo in salsa tricolore.I nomi sono gli stessi, i ruoli sono cambiati, le argomentazioni politiche, appunto, rovesciate. D'Alema ha il compito più difficile perchè accreditarsi come riferimento della sinistra (quale?) ora che la sinistra è più o meno in rotta in tutto l'Occidente è davvero arduo. Ma anche Silvio ha i suoi grattacapi. "Quella roba lì" - etichettatura ad opera di Stefano Parisi - della piazza di Firenze dove si sono riuniti leghisti e forzisti "estremi" non gli piace. Le affermazioni sul Corriere, oggettivamente le più lucide da molto tempo a questa parte, servono per disegnare la fisionomia di un leader che ha il coraggio di prendere le distanze dal maistream radicale, gonfio di paure e rabbia, che imperversa sulle due sponde dell'Atlantico. Niente destra, assicura Berlusconi, quanto piuttosto una forza politica «liberale e popolare» (sarà mica il nuovo nome del partito?), venata di pulsioni di riformismo socialista, decisa a collocarsi al centro dello scacchiere politico. La virata verso il proporzionale - anche questa paradossale: Berlusconi ha incarnato il bipolarismo italiano - è fisiologica per sedimentare la nuova postazione: con quel meccanismo, infatti, una forza del 12-14 per cento diventa decisiva per la formazione praticamente di qualunque maggioranza. Insomma una Dc 2.0 hanno detto in molti. Definizione che l'ex premier non rigetta. Non a caso ha di fatto rilanciato la collaborazione con il Pd dopo il 4 dicembre: un specie di compromesso storico a parti rovesciate (che oggi si chiama governo di larghe intese), fatto dalla posizione di forza derivante dalla sconfitta del Sì e come collante, diciamo così, ideologico, l'obiettivo di bloccare i Cinquestelle.Una scelta, quella dell'ex Cavaliere, tutt'altro che banale. Dopo un'esperienza dentro al Palazzo durata quattro-cinque lustri, Berlusconi ha compreso perfettamente qual è lo schema più adeguato, quello dove infilarsi con maggior agio per lucrare la migliore rendita di posizione.E queste sono le luci. Però poi ci sono anche le ombre, di caratura niente affatto trascurabili. Berlusconi infatti espugna il fortino centrale dello schieramento politico, solo che rischia di trovarlo vuoto. Il tempo delle mediazioni al centro sembra tramontare. Trumpismo o meno, non c'è dubbio che oggi la politica non passa per i posizionamenti quanto per le risposte ai problemi, alcuni davvero angoscianti, che attanagliano le società più avanzate, europee in primo luogo. Il neo presidente americano, i tanti inglesi che hanno fatto vincere la Brexit, le folle che riversano nelle urne la loro voglia di cambiamento optando per i partiti non necessariamente di destra ma sicuramente di maggior radicalismo, danno risposte che possono anche apparire primitive, di pancia, estreme. Hanno tuttavia il pregio di essere facilmente comprensibili e di offrire esattamente le sicurezze che l'opinione pubblica cerca. Questo molto spesso le rende maggioritarie.Invece è proprio su tale fronte che i cosiddetti moderati, indipendentemente se militano a destra o a sinistra, annaspano. Non può essere un caso se, nell'intervista al Corriere, Berlusconi evita accuratamente di parlare di una qualunque delle questioni più rilevanti: dall'immigrazione clandestina alla lotta alla disoccupazione; dalla guerra alla corruzione, alla riduzione fiscale, al ruolo dell'Italia in uropa: neanche una parola salvo generici apprezzamenti per alcune posizioni del nuovo inquilino della Casa Bianca e accenni sparsi qua e là, senza approfondimento alcuno. Si capisce perché. Qualunque posizione Berlusconi assumesse, infatti, provocherebbe inevitabilmente lacerazioni e divisioni non solo nel centrodestra ma direttamente dentro Forza Italia. Per non parlare dell'impossibilità di trovare una sintonia con il Pd, a maggior ragione se "de-renzizzato". Detto in altri termini, se la posizione centrista garantisce visibilità e capacità di manovra non altrettanto assicura dal punto di vista dei voti, visto che la tendenza dell'elettorato è di scivolare, premiandole sotto il profilo del consenso, le posizioni più radicali e semplificatorie. La riprova sta nel fatto che anche sul fronte opposto, quello renziano doc, le ultime settimane prima del voto vedono il premier abbandonare la guardiania delle posizioni più centriste per rivolgersi, sia dal punto di vista comunicativo che da quello politico tout court, ai settori finora monopolizzati proprio dalla Lega e, soprattutto, dai Cinquestelle, tipo il taglio delle poltrone e dei costi della politica.Giochi spericolati, dove la tattica prende il sopravvento sulla visione d'insieme e sugli impegni da realizzare. Eppure è proprio questo ciò che chiedono gli elettori: concretezza di obiettivi e credibilità delle ricette per ottenerli. Pronti a rivolgersi a chi assicura di saperli raggiungere; poco importa se usando la scorciatoia del populismo. Categoria del resto sempre più svuotata di significato e, dunque, di pericolosità percettiva. Carlo Fusi