Devo una risposta a Emanuele Macaluso, che ringrazio per l'attenzione che ha dedicato a un intervento con il quale motivavo la mia adesione alla Marcia dei radicali di domenica scorsa. Macaluso mi chiede un chiarimento sui motivi per cui ritenevo e ritengo inattuale e irrealistica, in questo momento, la prospettiva di un provvedimento come amnistia o indulto. E mi chiede quali siano i "diversi motivi" (se siano "reali, seri o invece pretestuosi") che avevo genericamente addotto a supporto della mia affermazione che, come Emanuele correttamente riporta, era completata dalla frase "non perché non sia giusto e coraggioso parlarne e battersi per questo obiettivo".Provo a indicarne alcuni, che vedo. Il primo è che non ritengo che, in questo Parlamento, vi siano i numeri sufficienti per far passare un provvedimento del genere.Molti, anche sensibili al tema, temono che sia impopolare, che faccia perdere consensi. Sono preoccupazioni trasversali agli schieramenti politici. Non le condivido, ma ci sono, le tocco con mano. Ovviamente non mi riferisco a forze che hanno un'idea oscurantista della pena, forze che sollecitano e suscitano paure e insicurezze anche quando queste non ci sono o non sono percepite, chiamando a risposte semplificate e rozzamente securitarie. Mi riferisco a forze democratiche, non animate da populismi di bassa lega. Del resto fa riflettere il fatto che siano stati poche decine i parlamentari che hanno dato la propria adesione all'appuntameno dei radicali. Aggiungo: non sono molti neppure gli organi di informazione, gli opinionisti, le forze sociali, gli intellettuali, le grandi personalità (a parte il Pontefice) che alzano la propria voce per aiutare la società e la politica a maturare un approccio più civile e coraggioso a questi temi. Anche per questo le adesioni concrete ad una proposta del genere rimangono largamente minoritarie.C'è un altro motivo che mi porta a ritenere doveroso usare realismo e consapevolezza dei rapporti di forza. Riguarda proprio le persone detenute. Mi capita frequentemente di visitare carceri, parlare con loro. In queste occasioni (prima ancora della voce parlano gli occhi) arriva sempre la domanda: "Quando farete l'amnistia"? La mia risposta è la stessa che ho scritto pubblicamente. Riterrei poco responsabile nascondere le difficoltà, gli ostacoli che stanno davanti a questi provvedimenti. La delusione che seguirebbe ad una illusione (non ad una speranza, beninteso) sarebbe gravissima e crudele. Anche per questo penso sia giusto guardare in faccia la realtà. C'è poi, a mio giudizio, un altro motivo. Lo stesso papa Francesco, dopo l'Angelus di domenica, ha auspicato, rivolgendosi alle istituzioni di tutto il mondo, un atto di clemenza "verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento". È un auspicio nobile e condivisibile. Che presuppone, tuttavia, possibilità reali di re-inserimento sociale (o neo-inserimento se pensiamo a tanti detenuti extracomunitari, passati quasi direttamente dal rischio di morte su un barcone, alla piccola criminalità e di qui alla reclusione). Anche qui penso sia d'obbligo fare i conti con il principio di realtà e in questo senso, allo stato, non sarebbe semplice un inserimento sociale serio per qualche migliaio di persone. La verità è che il sistema Italia non è pronto per questo. Rischieremmo corto circuiti, qualche recidiva di troppo, con l'effetto possibile di fare arretrare battaglie di civiltà come quella legata alla condizione delle carceri. Che fare, allora?Rinunciare? Limitarsi a testimonianze a favore di un obiettivo che lo stesso ministro Orlando ha definito "arduo"? Certamente no. La mia opinione è che si debba continuare lungo la strada intrapresa in questi anni, grazie anche al messaggio alle Camere di Giorgio Napolitano. Continuare nella drastica riduzione di forme incivili di custodia cautelare; irrobustire le esperienze di pene alternative al carcere e di messa alla prova; continuare nella depenalizzazione e nella decarcerizzazione per reati tenui e di non grave allarme sociale. In questo senso auspico davvero una rapidissima approvazione al Senato della riforma del processo penale, che contiene anche parti fondamentali legate alla giustizia riparativa, alla esecuzione della pena, alla condizione penitenziaria. Certo, in questo quadro c'è la questione fondamentale: la condizione delle carceri italiane. È noto, abbiamo fatto passi in avanti importanti. Oggi non c'è quella terribile condizione di sovraffollamento che prima ancora delle sanzioni europee le comminava alla nostra coscienza. Ma la svolta decisiva si raggiunge con una esecuzione della pena che sia davvero quella voluta dalla Costituzione, basata su un tempo da passare in carcere in condizioni civili e umane e soprattutto fondata sulla speranza e la possibilità concreta di un recupero e di un reinserimento sociale per chi ha sbagliato e pagato il proprio debito con la società. E allora lavoro, tanto lavoro in carcere e, ove possibile, all'esterno. Tanta formazione e tanta scuola dietro le sbarre. Tante esperienze di attività culturali, musicali, teatrali e di socializzazione, Tanta mediazione culturale e tanto volontariato. E tanta attenzione alle esigenze della Polizia penitenziaria, che svolge un ruolo davvero importante e delicato. Investire in umanità nelle carceri significa investire in sicurezza: chi esce da una giusta pena con un mestiere in mano, con una speranza concreta, difficilmente - si sa - torna a delinquere. Anche queste cose non sono obiettivi facili. Le iniziative dei radicali contenevano anche questi, così come le parole del Papa all'Omelia, che ho ascoltato lì con emozione.*capogruppo Pd in commissione Giustizia alla Camera