Piercamillo Davigo farà fatica a crederci: il governo passa con il rullo compressore della fiducia sulle precedenti profferte di alleanza. Gli «amici magistrati» non sono più amici o almeno li si può deludere. Blindato e convertito dunque in via definitiva dal Senato (159 voti a favore, 24 contrari e un solo astenuto) il "decreto Cassazione". Dentro ci sono le norme che prorogano i vertici della Suprema corte e che il sindacato dei giudici aveva aspramente contestato. Niente da fare: il presidente dell'Anm si era illuso che Renzi potesse ripensarci, mercoledì sera gli aveva lanciato un estremo appello affinché sospendesse l'iter di conversione. Lo vedrà lunedì prossimo, in un vertice a tre con il guardasigilli Andrea Orlando. Ma da quella "trattativa" è stato già stralciato il trattenimento in servizio limitato ai soli ruoli apicali delle alte corti. L'esecutivo è andato per la propria strada senza neppure inviare una lettera di scuse all'Associazione magistrati. Saltano tutti gli schemi sulla giustizia: salta lo schema della «fiducia che mi guardo bene dal porre su provvedimenti ritenuti dannosi dagli amici giudici», sempre per dirla con lo slancio affettuoso a cui il premier si lasciò andare a fine settembre. E non si capisce più che senso abbia lo stop imposto dal presidente del Consiglio alla riforma del processo penale. Dopo il voto di ieri sopravvive un solo appiglio logico: il maxi ddl con dentro prescrizione e intercettazioni è stato messo in freezer non per compiacere Davigo ma per evitare che i cinquestelle attaccassero il governo sulla giustizia in piena campagna referendaria. Non fosse così, bastava metterci la fiducia. Ieri è rimasta di sasso la stessa minoranza dem. «Parliamoci chiaro, questo provvedimento può passare solo con la fiducia, l'esecutivo sa che rischierebbe moltissimo su alcuni articoli», dice Doris Lo Moro, senatrice calabrese non renziana ed ex magistrata. Lei aveva firmato il parere "critico" uscito la settimana scorsa dalla commissione Affari costituzionali. Ricorda che gli articoli 5 e 10 del decreto «introducono in maniera del tutto inappropriata norme assolutamente discriminatorie». Sono appunto i passaggi del provvedimento in cui si stabilisce il rinvio del congedo per le funzioni apicali di Cassazione, Corte dei Conti, Consiglio di Stato e Avvocatura dello Stato. C'è un altro passaggio di Lo Moro che segna la discussione mattutina, celebrata in attesa che il ministro Maria Elena Boschi annunci la fiducia, e riguarda il guardasigilli Orlando. Il quale, osserva la senatrice della minoranza dem, «è stato qui in occasioni importanti, anche per rivendicare il prodotto del suo lavoro, oggi non c'è ma fa male a non esserci, perché su questo provvedimento è costretto a metterci la faccia insieme a Renzi». In realtà Orlando preferirebbe evitare il "doppio binario" sulla giustizia: indifferenza alle richieste dell'Anm sul decreto convertito ieri ma congelamento, «per non far dispiacere Davigo», della riforma penale, alla quale lui, il guardasigilli, ha dedicato due anni di lavoro. Orlando non si intesta il doppiopesismo imposto mediante fiducia. Ad ascoltare Lo Moro e altri sconcertati senatori Pd (da Lucrezia Ricchiuti a Maria Grazia Gatti) resta in aula il sottosegretario Gennaro Migliore. L'inspiegabile è motivato, secondo parte dell'opposizione, dalla necessità di sdebitarsi con Giovanni Canzio, primo presidente della Cassazione e tra i pochi destinatari della proroga. Quagliariello, Giovanardi e Calderoli chiamano in causa le decisioni assunte dal magistrato sui quesiti referendari e sulla mancata remissione alle sezioni unite dei ricorsi in materia di stepchild adoption. Insinuazioni su cui glissa il cinquestelle Maurizio Buccarella, l'unico in Aula a ricordare le «limitazioni al diritto di difesa nei ricorsi civili in Cassazione» pure previsti dal decreto: non ci sarà più «la possibilità per l'avvocato di conoscere in anticipo le motivazioni di un'eventuale inammissibilità». Finisce con l'insuperabile senatore di Ala Ciro Falanga, che con i voti suo e dell'intero gruppo verdinano garantisce la fiducia al governo. «Diamo una lezione di democrazia», urla tra gli applausi, ironici e impotenti, di mezzo emiciclo.