Ci sono alcune tragedie greche che i filologi definiscono "a dittico". Un'espressione complicata per dire una cosa semplice: la storia del dramma è divisa in due parti. E questa linea di confine tra un prima e un dopo può essere determinata da vari eventi, spesso dalla morte dell'eroe. Ha questa struttura anche il monologo Viva Falcone, scritto e interpretato da Antonio Lovascio, in scena al Teatro Lo Spazio di Roma fino a domenica 23 ottobre. Lo spettacolo gode del patrocinio della Fondazione Falcone e ha vinto il Premio Nazionale di drammaturgia "La riviera dei monologhi. Teatro di impegno civile".A dittico, dunque, è anche Viva Falcone, perché la morte del magistrato traccia un solco nella vita del protagonista Salvatore San Filippo, un giovane siciliano nato alla fine anni Settanta ed emigrato a Milano con la famiglia, stipata «nella 127 rosso fiammante: bagagli, bagaglini, valige, valigette, pacchi e pacchettini». Dalla colata lavica dell'Etna alla colata di cemento di Quarto Oggiaro. Nella prima parte Salvatore racconta la vita da emigrato, la nostalgia dell' «Isola», l'impatto con la grande città, «Milano, che era come la Svizzera», i ritorni estivi nella terra dell'infanzia, la granita delle otto. «Salvatore, surgiti che arriva chiddu da granita», «Ma perché mi devo alzare presto, mamma, che sono in villeggiatura? ». «Perché ci tengo? » era la risposta, e solo molti anni dopo il ragazzo ne comprenderà il significato. Il 23 maggio del 1992 un'edizione straordinaria del telegiornale cattura l'attenzione di Salvatore, i suoi genitori sono sconvolti. «Hanno ucciso il giudice Falcone», spiega il padre. «Ah! », risponde il figlio quindicenne, e si domanda: «Cu è il giudice Falcone? ».La seconda parte del monologo racconta il percorso di consapevolezza del giovane, che quell'estate non parteciperà alla prima villeggiatura oltreconfine dei genitori perché vuole andare nella sua Sicilia, terra per tanti anni idealizzata, e capire. Così Salvatore va dallo zio Antonio, il più originale della famiglia, un uomo «studiato», laureato in fisica quantistica, ma bidello per scelta. Nella casa dello zio, tra libri sulla meccanica, sugli universi ipersferici, il ragazzo trova anche: Cose di Cosa nostra, Storia di Giovanni Falcone, La mafia ha vinto. Qui Salvatore ricerca, si informa, studia il maxiprocesso, decostruisce la Sicilia fiabesca e intraprende quel viaggio di formazione che porterà molti giovani siciliani a scendere nelle piazze, ad ammettere prima di tutto che la mafia esiste e che a questa mafia vogliono gridare il loro "no". Non è solo la prospettiva del viaggio di formazione a rendere diverso e più ricco questo testo di "teatro civile", rispetto ai molti che si presentano spesso in maniera schematica, con un'impronta seccamente documentaria. Con Viva Falcone, Antonio Lovascio interpella di continuo lo spettatore e lo fa attraverso le scelte drammaturgiche e sceniche.L'attore-autore si rivolge spesso alla platea, in un gioco metateatrale sobrio. Attinge alle tradizioni del Cuntu, dei narratori di piazza: pensa al poeta Ignazio Buttitta, ai pupi di Mimmo Cuticchio, dei quali ha studiato i movimenti, per riviverli sulla scena, trasformandosi egli stesso in paladino. Lovascio, il mattatore garbato, entra ed esce dai personaggi, maschili o femminili che siano, con un tic linguistico, un gioco di ripetizioni, di modulazioni vocali e di rimandi. Con queste variazioni, le ironie sugli stereotipi teatrali e umani, con piccole prove di trasformismo, con una risata che coglie lo spettatore nel mezzo della più intensa invettiva, l'interprete non stanca mai il suo uditorio e, anzi, nel corso di un'ora e dieci minuti, lo provoca e lo costringe all'attenzione, con un dispendio di energia che pochi attori italiani potrebbero offrire.Il direttore del teatro Lo Spazio, il coraggioso compositore Francesco Verdinelli, continua a proporre teatro d'impegno e a credere in un attore non ancora molto conosciuto, che recita per le sette persone in sala e sembra averne di fronte mille. È questa l'etica degli attori veri, gli artigiani che si svegliano presto al mattino e con lo scalpello modellano i movimenti del corpo, la voce, la prossemica, i ritmi. Sul palco Lovascio non porta che un carrettino siciliano per le granite, un paio di valige, una pila di libri e la sua storia. Gli basta un cappello, una luce, un cambio vocale, un taglio degli occhi, per essere a un tratto Michele Greco o per interpretare la voce della mafia, nascosta nella mentalità.Non è miserabilismo scenico, ma scelta, e in parte, certo, necessità, però lui sa fare di necessità virtù. D'altronde, per capire bene lo spettacolo, bisogna conoscere un poco anche chi lo ha scritto. Questo monologo ha a che vedere con la biografia di Antonio Lovascio, figlio di una siciliana di Messina e di un pugliese emigrati nelle Marche, è cresciuto con l'eredità di questa forza che viene dalle province, dai teatrini di marionette visti nei mercati, dalla cultura orale del Meridione. Lovascio è autore di queste e altre avventure, come quando ha scritto la drammaturgia di Alda Merini, I Beati anni dell'innocenza, e per farlo è andato a Milano dalla poetessa, che il primo giorno lo ha cacciato via. Però lui non ha rinunciato, è tornato il giorno dopo, e allora la Merini lo ha accolto e gli ha affidato una parte della sua storia. Perché questo è Lovascio, un sognatore che a volte sogna troppo, e a volte no, che ce la mette tutta, proprio come fa certa Sicilia, certa Italia, nel tentativo di uscire dall'indolenza, di dire con convinzione ancora una volta: Viva Falcone.