Hopperiano. La grande popolarità dell'arte di Edward Hopper e la sua incidenza in vari ambiti della cultura visiva ? dalla pittura al cinema, dall'illustrazione alla fotografia, dalla pubblicità alla tv al merchandising ?, giustificano ampiamente l'aggettivo. Il sommesso lirismo della sua pittura e la suggestione che essa suscitò fra i più autorevoli rappresentanti della Settima Arte costituiscono le premesse su cui si sviluppa la rassegna Edward Hopper, fino al 12 febbraio 2017 al Complesso del Vittoriano di Roma.Fra dipinti e acquarelli, incisioni e disegni, l'esposizione, curata da Barbara Haskell in collaborazione con Luca Beatrice, offre una convincente campionatura della produzione del maestro statunitense, che si dipana attraverso tutti i principali generi della pittura figurativa: ritratto, paesaggio, scene d'interno, nudo. In mostra circa sessanta capolavori, realizzati tra il 1902 e il 1960 e provenienti dal Whitney Museum di New York, fra i quali spiccano Le pont des Arts (1907), Le Bistro or The Wine Shop (1909), Summer Interior (1909), Light at Two Lights (1927), Cape Cod Sunset (1934), South Carolina Morning (1955), Second Story Sunlight (1960) e il grande olio su tela (circa due metri di lunghezza) Soir Bleu, dipinto a Parigi nel 1914. La sua personale cifra stilistica, tradizionale ma non tradizionalista, si salda a un'attenzione specifica verso soggetti urbani e architettonici e una resa della luce che risente dell'influenza di Rembrandt, dando vita a un affresco composito, fatto di strade desolate, bar notturni, tavole calde, sperduti paesaggi di campagna e scorci di appartamenti della middle class, in cui uno o, comunque, pochi personaggi, vengono colti nel lirismo sospeso di un attimo irripetibile.Schivo e riservato, non avvezzo ai luoghi d'elezione dell'arte del periodo ma al contempo estremamente popolare ? nel 1948 un sondaggio della rivista Look lo pone fra i dieci «migliori pittori americani del momento», mentre nel 1956 il Time gli dedica la copertina ?, lontano dai movimenti avanguardistici coevi ? tanto da partecipare, durante gli anni Cinquanta, alla rivista Reality, caratterizzata da una convinta adesione ai valori della figurazione da contrapporre all'Informale e all'Astrattismo ? e profondamente influenzato dalla pittura impressionista di Manet e Degas, Edward Hopper riesce a trasfigurare il realismo di soggetti e ambienti in una compiuta metafisica personale. «Il pittore ? rimarca Luca Beatrice ? che sceglie di esprimersi fuor di metafora, osservando ciò che vede e riportandolo sulla tela, avverte una condizione di solitudine culturale, quasi fosse l'ultimo sopravvissuto alle tempeste sollevate dall'arte come linguaggio».Attraversata da incisiva essenzialità e da una sensibilità cinematografica per le inquadrature e la messa in scena, l'estetica di Hopper s'incardina su un doppio movimento dello sguardo, che coinvolge le presenze immote dei suoi personaggi. «L'occhio educato e controllato e per loro invisibile ? rileva in un saggio Goffredo Fofi ? li guarda da una rispettosa distanza, molto spesso da fuori (oltre le vetrate e le finestre che li separano dal mondo), e spesso, molto spesso, sono loro a guardar fuori, ma mai "in macchina" come nella ritrattistica classica, nelle foto "in posa"».Una sezione inedita della mostra approfondisce l'influenza che l'opera di Hopper esercita sul cinema, permeando film e registi di primo piano, da Michelangelo Antonioni ?- Il grido, L'eclisse e Deserto Rosso -? ad Alfred Hitchcock -? Psycho e Finestra sul cortile -?, da David Lynch ?- Velluto blu e Mullholland Drive -? a Wim Wenders ?- Paris, Texas -?, dai fratelli Coen -? L'uomo che non c'era -? a Dario Argento, che in Profondo rosso ricostruisce, nella sequenza del bar, le atmosfere di Nighthawks.